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  Scuola di Teologia dei Laici 2005/06  
  La morale sessuale, familiare e della vita fisica  
  Carissimi Lettori (Alunni ed Amici),
A seguire troverete il programma e la bibliografia del corso 2005/06 per l�anno B della Scuola di Teologia per Laici.
Gli appunti successivi sono relativi alle lezioni di morale tenute nel corso precedente, nell�anno 2002/03.
Ritengo che siano ancora sostanzialmente validi (la morale non � certo cambiata in tre anni!), tuttavia necessiterebbero di qualche aggiornamento, che spero di introdurre per la prossima estate.
Preciso, in ogni caso, che si tratta soltanto di appunti (sebbene un poco sviluppati). Non sono quindi �dispense� gi� pronte per l�uso o, peggio, per l�abuso.
Essi trovano la loro collocazione all�interno del corso e della relativa bibliografia in esso proposta.
Non possono dunque sostituire la partecipazione al corso e la lettura dei testi (quest�anno proponiamo lo studio dei testi indicati nella bibliografia con un asterisco *).
Inoltre, accanto agli usuali limiti, possono essere presenti errori ed imprecisioni. Sar� grato a quanti mi faranno pervenire correzioni ed osservazioni, in vista della �versione riveduta� e completata degli appunti stessi.
RingraziandoVi della Vostra stima e attenzione, Vi auguro buona lettura e buono studio (anche dei testi!).
Pace e bene!
 
 
don Diego Facchetti
 
 
Seminario Diocesano
via Bollani 20 - 25123 BRESCIA
tel. 030.37.12.236
e-mail: dondiegofacchetti@interfree.it
 
 

La morale sessuale, familiare e della vita fisica

Programma del corso
1. Vita e sessualità nel disegno di Dio: dono e compito
2. Vocazione all’amore: matrimonio e famiglia. Fedeltà e apertura alla vita
3. Problemi di morale sessuale: masturbazione, omosessualità, rapporti pre-matrimoniali
4. Accoglienza della vita: procreazione, fecondazione artificiale, aborto
5. Genetica e rispetto dell’embrione: diagnostica pre-natale, clonazione, cellule staminali
6. Salute e malattia. Diritti del paziente. Donazione e trapianto di organi
7. Al termine della vita: eutanasia, accanimento terapeutico e cura del malato terminale
8. L’uomo e il suo ambiente

Testi consigliati
*ARAMINI M., Manuale di bioetica per tutti, Paoline, Milano 2006.
COMPAGNONI F. - PIANA G. - PRIVITERA S. (edd.), Nuovo dizionario di teologia morale, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1999(4).
DIANIN G., Matrimonio, sessualità, fecondità. Corso di morale familiare, Messaggero, Padova 2006.
DOLDI M., Bioetica per giovani, Piemme, Casale M. (AL) 2001 (= D).
ID., 50 risposte sull’amore e l’affettività, Piemme, Casale M. (AL) 2002.
GATTI G., Manuale di teologia morale, LDC, Leumann (TO) 2001, pp. 231-269; 366-461.
LEONE S., Educare alla sessualità, Dehoniane, Bologna 2000.
ID., Manuale di bioetica, Ist. Sic. di Bioetica, Acireale (CT) 2003.
ID. - PRIVITERA S. (edd.), Nuovo dizionario di bioetica, Città Nuova-Ist. Sic. di Bioetica, Roma-Acireale (CT) 2004.
LUCAS LUCAS R. (ed.), Bioetica per tutti, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2002.
MARTINI C.M., Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000.
MELINA L. (ed.), L’agire morale del cristiano, Jaca Book, Milano 2002, pp. 119-309 (= M).
MURARO G., La morale familiare..., San Paolo, Cinisello B. (MI) 1999.
PADOVESE L., Uomo e donna a immagine di Dio…, Messaggero, Padova 20013.
PONT. CONS. PER LA FAMIGLIA [ed.], Famiglia e questioni etiche, Dehoniane, Bologna 2004.
ID. (ed.), Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Dehoniane, Bologna 2003.
RUSSO G. (ed.), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, LDC-Velar-CIC, Leumann (TO) 2004.
SGRECCIA E., Manuale di bioetica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 2002-20033.
TETTAMANZI D., Dizionario di bioetica, Piemme, Casale M. (AL) 2002.
ZUCCARO C., La vita umana nella riflessione etica, Queriniana, Brescia 20032.

Documenti magisteriali
Catechismo della Chiesa cattolica, LEV, Città del Vaticano 1999, nn. 2196-2400; 2514-2533.
CEI, Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, Fondaz. di religione «Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena», Roma 1993 (= DPF).
S. CONGR. PER LA DOTTR. DELLA FEDE, Dichiaraz. Quaestio de abortu sull’aborto procurato, 18/11/1974: EV 5/662-688 (= De ab. proc.).
*ID., Dichiaraz. Persona humana su alcune questioni di etica sessuale, 29/12/1975: EV 5/1717-1745 (= PH).
ID., Dichiaraz. Iura et bona sull’eutanasia, 5/5/1980: EV 7/346-373 (= IeB).
ID., Istruz. Donum vitae sul rispetto della vita umana nascente…, 22/2/1987: EV 10/1150-1253 (= DnV).
*GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Familiaris consortio, 22/11/1981: EV 7/1522-1810 (= FC).
ID., Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova, Roma 20015.
*ID., Lett. enc. Evangelium vitae, 25/3/1995: EV 14/2167-2517 (= EvV).
*PAOLO VI, Lett. enc. Humanae vitae, 25/7/1968: EV 3/587-617 (= HV).
PONT. ACADEMIA PRO VITA, Riflessioni sulla clonazione, 24/6/1997: EV 16/587-605.
ID., La produzione delle cellule staminali, 24/8/2000: EV 19/1223-1243 (= PCS).
P. CONS. PER LA FAMIGLIA (ed.), Enchiridion della famiglia. Documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita. 1965-2004, Dehoniane, Bologna 20042 (= EF).

Siti
http://www.bioeticacristiana.it/homep.htm
http://www.mpv.org/
http://www.teologiaperlaicibs.org/moraleb.htm  

La morale sessuale, familiare e della vita fisica

1. Vita e sessualità nel disegno di Dio: dono e compito

1.1. Vita, sesso e amore tra minacce e “idolatria”. Il clima culturale del nostro tempo
La situazione attuale interpella la Chiesa ad un impegno che le consenta di cogliere le “sfide” della cultura contemporanea al messaggio cristiano, e di offrire le necessarie risposte, soprattutto rimettendo a fuoco teologicamente i valori permanenti coinvolti.
Infatti, un’adeguata comprensione dei mutamenti che coinvolgono la percezione di valore ed i comportamenti riguardanti la vita, la sessualità, la famiglia non è, per la stessa Chiesa, una sorta di “lusso” intellettuale, né un semplice esercizio culturale. Conoscere la realtà è di importanza determinante anche per l’azione pastorale della comunità cristiana, perché c’è altrimenti il rischio di rivolgersi ad una persona immaginaria, non a quella reale: da questo deriva l’impressione (per essere benevoli!) di genericità ed a volte di astrattezza del messaggio proposto e la risonanza limitata che esso ha nel cuore delle persone con le quali la Chiesa entra in contatto.
Quali sono i caratteri più salienti del clima culturale odierno?
Senza dubbio siamo inseriti in una società pluralista e complessa, in cui sono presenti contemporaneamente visioni del mondo assai diversificate e per nulla gerarchicamente coordinate.
Il pluralismo culturale si coniuga ad un soggettivismo pragmatista. Il metro della valutazione di sé e della stessa realtà diventa l’“esperienza personale”. L’individuo diventa l’unico giudice che le conferisce valore. Si assiste ad una drammatizzazione del proprio vissuto, che viene enfatizzato e talora anche mitizzato, quale fonte di gratificazione personale e base per la propria identità e stabilità psicologica. Il concetto esasperato di soggettività favorisce la dissociazione tra libertà e verità, e quindi una concezione distorta di libertà che trasforma la convivenza sociale (cf. EvV 18-20; EV 14/2218-2230; EF 1161-1173).
A ciò si aggiunga lo stile della società consumista. L’industrializzazione ha permesso di avere a disposizione un numero considerevole di beni di consumo a prezzi accessibili, dando così origine ad una vera e propria sete di consumare e di godere. Infatti, consumi facili sono divenuti sinonimo di possibile godimento. Sono apparsi in tal modo nella nostra società nuovi valori, come la ricerca di beni voluttuari e di una qualità di vita che si misura non attraverso la vera qualità umana (padronanza di sé, generosità, ecc.), ma con la facilità di vivere a proprio agio, senza alcuna costrizione. L’unico vero male viene ritenuto, in ultima analisi, ciò che appare fastidioso.
Vita, amore, sessualità sono considerati in modo nuovo, anche rispetto ad un recente passato.
Nel nostro tempo in alcuni casi la vita fisica, in particolare il “corpo”, è oggetto di eccessiva preoccupazione (salute, bellezza, sport...); in altri emergono segni di una “cultura di morte”.
Un elenco non certo esaustivo non può fare a meno di comprendere: guerre, conflitti etnici, “corsa agli armamenti”, fame e malattie; violenze quotidiane, criminalità, violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Non vanno però dimenticati fenomeni quali la diffusione dell’aborto e della contraccezione (mali morali specificamente diversi, ma strettamente connessi a livello di mentalità); la massiccia pianificazione delle nascite come risposta al problema demografico; le varie tecniche di riproduzione artificiale e diagnosi prenatali con i connessi attentati alla vita. Last but not least, assistiamo anche alla perdita di senso della vita malata e tentazione (se non fatto!) dell’eutanasia per i malati inguaribili ed i morenti.
Per quanto riguarda l’amore, va notata una certa (o forte?) “riduzione” alla sua fase sessuale, oltretutto non considerata con serenità. Infatti, spesso:
- la sessualità viene messa al servizio del consumo, e diviene “consumo” essa stessa: ne sono indicatori i mercati della pornografia, la pubblicità, la mercificazione del corpo, l’erotismo in genere;
- la relazione sessuale diventa un bene da consumarsi subito, venendo privata di quella prospettiva a lunga scadenza, che è maturativa nella formazione della personalità in via di sviluppo;
- i modelli di comportamento si appiattiscono su quelli dettati dalla pubblicità.
Naturalmente, anche matrimonio e famiglia conoscono significativi segni di “crisi”. Lo stesso Papa, trattando dei compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi, innanzitutto esamina, insieme alle “luci”, anche le “ombre della famiglia oggi” (cf. FC 4-10; EV 7/1532-1556; EF 482-506).
La famiglia infatti, come e forse più di altre istituzioni, è oggi investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Basti ricordare il ricorso, ormai non più raro, alla convivenza, al divorzio, oltre che all’aborto ed alla contraccezione, già accennati. La cronaca continuamente porta alla ribalta episodi di rifiuti del matrimonio, di violenza familiare, di uccisione della vita nel grembo della madre, di abbandono di neonati. Fedeltà reciproca degli sposi per tutta la vita ed apertura generosa al dono dei figli vengono sempre più contestati.
Le cause di questa “trasmutazione” di valori, come sopra riconosciuto, sono soprattutto d’indole culturale, sociale e politica. In ultima analisi però l’eclissi del giusto valore della vita, della sessualità e dell’amore scaturisce dall’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, come esito del secolarismo. L’uomo si percepisce come un semplice organismo, un oggetto. Sfuggendo al mistero, anche le esperienze umane (nascita, sofferenza, morte) diventano “oggetti”, cose che si pretende di “possedere” o di “rifiutare”. I valori dell’“essere” lasciano il posto a quelli dell’“avere” (cf. EvV 21-24; EV 14/2231-2244; EF 1174-1187).
Non sono infrequenti le contestazioni nei confronti dell’insegnamento morale nemmeno tra i cristiani. Il rapporto fra messaggio cristiano ed etica della sessualità, in particolare, che - si può dire - ha sempre conosciuto difficoltà, pare però esser divenuto apertamente conflittuale.
Occorre però anche notare nel nostro tempo la presenza di altri “segni”.
L’accentuata personalizzazione porta a far avvertire sempre di più all’uomo il senso della propria separatezza e della propria solitudine, mentre i progressi della scienza e della tecnica inducono l’umanità a ricercare con ansia crescente valori umani autentici.
Così, la nuova cultura del “corpo”, se può condurre alla dimenticanza di valori più propriamente spirituali, può però anche portare alla scoperta del corpo nella sua differenza e ricchezza, nel suo appello all’incontro con l’altro, nell’esser luogo di bisogni e desideri non riducibili alla razionalità tecnologica e strumentale.
Nel nostro tempo l’amore pare assumere una nuova centralità. Una profonda modifica dei comportamenti, soprattutto giovanili, non sempre in senso positivo, è avvenuta sotto l’influsso degli avvenimenti (quali quelli correlati alla “contestazione” del ’68) e delle acquisizioni delle scienze umane ed in particolare di quelle psicologiche (basti ricordare Autori come lo psicanalista Wilhelm Reich [1897-1957; sua è La rivoluzione sessuale, 1936] ed Herbert Marcuse [1898-1979; autore di Eros e civiltà, 1955 e L’uomo a una dimensione, 1964]).
Vanno segnalati anche segni di speranza nell’ambito della famiglia e dell’accoglienza alla vita, come la diffusione di CAV, di gruppi di volontariato, di apertura all’adozione ed all’affido. Non mancano pure gesti che denotano una crescita della coscienza sociale nei confronti del valore della vita, della pace, dell’attenzione verso i malati ed i poveri, della qualità della vita e dell’ambiente.
Il panorama che ci sta dinanzi è dunque assai composito. Il primo passo da compiere, in ogni caso, è una riflessione su tali realtà alla luce del disegno di Dio e delle più profonde esigenze umane.

1.2. Il messaggio rivelato sulla vita e sull’amore
Una corretta visione dell’etica cristiana riguardante la vita e la sessualità si colloca e si comprende solamente all’interno del quadro dell’amore di Dio e del prossimo, così come ci è rivelato nella Scrittura.
La Bibbia è il racconto di come l’intera storia umana abbia contenuto un particolare filone di storia (quella del popolo eletto), nel quale Dio stesso si è progressivamente rivelato come Amore, e all’interno del quale gli uomini hanno imparato ad amarlo e ad amarsi tra loro. È una “storia sacra” che può essere letta proprio come storia di educazione all’amore.
In un contesto, in cui si interroga sulle ambivalenze della storia - amata da Dio, eppure carica di peccato ed ingiustizie; portatrice della promessa di Dio, eppure deludente - la Bibbia si interroga anche sulla vita e sull’amore. Tali grandi realtà hanno un volto positivo e negativo, rivelano un progetto di Dio ed insieme lo nascondono, racchiudendo in sé la capacità di smentirlo. Da una parte l’uomo può cogliere il disegno di Dio ed il suo amore, dall’altra la forza del peccato.

a) Alle origini
Dalla Bibbia emerge un senso profondo della vita in tutte le sue forme, ed un senso acuto di Dio, che rivelano nella vita, ricercata instancabilmente dall’uomo, un dono sacro in cui Dio fa risplendere il suo mistero e la sua generosità.
Il Dio della Bibbia è “il Dio vivente” (Gs 3,10; Sal 41 [42],3). La sua opera è particolarmente evidente nei racconti della creazione.
Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a; trad. P: ca VI sec. a.C.) la vita compare nelle ultime tappe, come suo coronamento. Nel quinto giorno nascono “i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque” (Gen 1,21) e gli uccelli. A sua volta la terra produce altri esseri viventi (Gen 1,24).
La creazione dell’“uomo” è posta al culmine della creazione:
“E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza e domini sui pesci del mare…’
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”: Gen 1,26-27.
In ebraico il vocabolo “immagine” (selem) rimanda a una statua che, nel realismo simbolico semitico, si avvicina fortemente al soggetto raffigurato. Il termine “somiglianza” (demût) invece indica distanza ed esclude l’identità totale. L’uomo è perciò la rappresentazione più somigliante di Dio che si possa concepire, è un interlocutore, colui che può ascoltare la Parola di Dio e rispondere, ma non è Dio.
Non va dimenticato che l’immagine di Dio si compirà perfettamente in Cristo, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). L’uomo trova, perciò, il senso ultimo della sua esistenza in Cristo, il Figlio di Dio che si fa uomo, perché noi diventiamo figli di Dio (cf. Gal 4,5).
L’uomo è il capolavoro di Dio: delle altre opere il Creatore “vide che era cosa bella-buona [tôb]” (Gen 1,4ss); dell’uomo si dice: “ed ecco, era cosa molto buona-bella” (Gen 1,31).
In quanto “immagine” di Dio, che è nella sua natura profonda amore, dialogo, l’uomo non è fatto per la solitudine. Sin dalla creazione infatti è tale “immagine” nella dualità di “maschio e femmina”. La “dialogicità” dei sessi si apre già al dono, all’amore. Nella benedizione della fecondità la sessualità ha indicato il suo sbocco e la sua finalità specifica: la trasmissione della vita. Un compito talmente grande che richiede la “benedizione” di Dio
“Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra’”: Gen 1,28.
Inoltre, come Dio è Creatore del mondo, così l’uomo è chiamato col suo lavoro a collaborare con Dio nell’opera di trasformazione dell’universo (cf. Gen 1,28). La Chiesa, perciò, prega: “Padre santo,... a tua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo, perché, nell’obbedienza a te, suo Creatore, esercitasse il dominio sul creato” (MR, Pregh. eucaristica IV).

Anche il secondo racconto della creazione (Gen 2,4-25, parte di Gen 2,4b-3,24; trad. J: ca X sec. a.C.) ci offre un interessante abbozzo antropologico: l’uomo appare, in Adamo, costituito secondo tre dimensioni fondamentali: in relazione con Dio, con i fratelli, con il cosmo.
- La relazione con Dio è essenziale, costitutiva. Lo indica la stessa origine dell’uomo: tratto dal fango della terra, egli deve la sua esistenza al soffio di JHWH:
“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”: Gen 2,7.
L’uomo, perciò, per la sua stessa origine, è un essere costituzionalmente dipendente da Dio. Egli non può mettersi al suo livello, ma deve riconoscere la sua creaturalità. L’obbedienza alla volontà di Dio (“dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”: Gen 2,17) è conseguenza di tale legame essenziale.
- L’uomo è chiamato ad uscire dalla sua solitudine: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). La Bibbia non si vergogna di mettere in luce l’aspetto di povertà, di bisogno dell’uomo: “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi” (Qo 4,9-10).
“Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18b): l’espressione (kenegdô: che stia “di fronte”; “a lui corrispondente”), comporta sia l’idea di uguaglianza che quella di completamento. Essa va certamente al di là della sfera puramente sessuale, per indicare che l’incontro è indispensabile all’uomo per trovare salvezza. La solitudine è povertà, incapacità. L’uomo non è progettato autosufficiente.
- JHWH pone l’uomo al centro della creazione, perché la coltivi, domini e conservi. Adamo, chiamando per nome gli animali, esprime la propria sovranità (cf. Gen 2,19-20).
Ma l’“aiuto a lui corrispondente”” viene offerto solo con la creazione della donna:
“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”: Gen 2,21-22.
Il linguaggio carico di immagini afferma che la donna non è estranea all’uomo, anzi è come una “parte” di lui, con la medesima dignità, capace di dialogare e di amare. Al di là del linguaggio utilizzato, si vuol dire che uomo e donna hanno la stessa natura e, dunque, la stessa dignità. Così si spiega l’attrazione e l’unione profonda che si stabilisce tra i due.
Perciò l’uomo intona il primo “canto nuziale” dell’umanità: “
Questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa. La si chiamerà donna, poiché dall’uomo è stata tolta”: Gen 2,23.
L’ultima frase in ebraico contiene un gioco di parole non traducibile (’îš - ’iššah = uomo-donna). Anche con questa assonanza linguistica l’autore vuole esprimere l’unità dei due sessi, pur nella loro distinzione. Il versetto conclusivo descrive, in stile sapienziale, non solo il fatto della mutua attrazione, ma il suo senso: la fondazione di una famiglia:
“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”: Gen 2,24.
In tal modo si evidenzia l’unicità esclusiva del rapporto e la sua indissolubilità. Il progetto di Dio sottolinea dunque: uguaglianza di dignità, mutuo aiuto, proposta di divenire un solo essere vivente.
La lettura unitaria dei due racconti della creazione conducono a considerare come l’equilibrio dei due elementi (unitivo e procreativo) deve segnare per sempre il matrimonio, quale Dio lo ha concepito nel suo disegno originario.

Il peccato (Gen 3) infrange questo equilibrio. Emerge così la vergogna di fronte alla nudità, la divisione fra l’uomo e la donna, la “distorsione” della sessualità dai suoi fini propri, come si coglie dalle parole del castigo:
“Alla donna disse: ‘Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze… Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”: Gen 3,16.
Invece che dono reciproco e sereno, la sessualità diventa strumento di dominio. Per questo sarà necessario rieducare l’amore.
Con il peccato non si incrina solo il rapporto inter-umano, ma anche con la terra. Compaiono così la fatica e la morte:
“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”: Gen 3,19.

b) Lo sviluppo
Per la Scrittura la vita è cosa preziosa, desiderata e cosa sacra. Ogni vita viene da Dio, ma il soffio dell’uomo ne viene in un modo tutto speciale: abbiamo visto come per farne un’anima vivente, Dio ha soffiato nelle sue narici un alito di vita (Gen 2,7; Sap 15,11).
La parola rivelata usa più termini per indicare l’uomo: egli è carne, anima, spirito. I diversi termini non indicano “parti” dell’uomo, ma situazioni vissute da tutto l’io in rapporto a JHWH. Così l’uomo è carne (essere mortale, legato alla terra), anima (dinamismo vitale diffuso in tutta la persona), e spirito (vita collegata alla sua sorgente divina).
Persino la vita dell’animale ha qualcosa di sacro; l’uomo si può nutrire della sua carne, a condizione che ne sia stato fatto uscire tutto il sangue, perché “la vita della carne è nel sangue” (Lv 17,11; cf. Gen 9,4); e proprio mediante questo sangue l’uomo entra in contatto con Dio nei sacrifici.
Ma la vita è anche cosa fragile. Tutti gli esseri viventi, e l’uomo stesso, non posseggono la vita che a titolo precario. Essi sono, per natura, soggetti alla morte. Questa vita di fatto è dipendente dal respiro, cioè da quel soffio fragile, indipendente dalla volontà e che un nulla basta a spegnere. Dono di Dio (Is 42,5), questo soffio non cessa di dipendere da lui (Sal 103 [104],29-30), che fa morire e fa vivere (cf. Dt 32,39). Effettivamente la vita è breve (Gb 14,1), un semplice fumo (Sap 2,2), un’ombra (Sal 143 [144],4). Sembra persino che essa non abbia cessato di diminuire dalle origini (cf. Gen 6,3; 47,9). Ormai anche 70 od 80 anni, sono diventati un massimo (cf. Sal 89 [90],10).
Preziosa e fragile, la vita è difesa da Dio: egli prende sotto la sua protezione la vita dell’uomo e vieta l’uccisione (Gen 9,5-6; Es 20,13), anche quella di Caino (Gen 4,15). Anche dopo aver vietato all’uomo peccatore l’accesso all’albero della vita, Dio non rinuncia ad assicurare all’uomo la vita. In attesa di dargliela mediante la morte del suo Figlio, Egli propone al suo popolo “le vie della vita” (cf. Sal 15 [16],11; Dt 30,15), che sono le leggi della giustizia.
Donandogli la vita, Dio esige dunque dall’uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono. Un comandamento mai separato dall’amore di Dio: si tratta sempre di un aiuto per la crescita e la gioia dell’uomo. La vita umana è sacra ed inviolabile: questi caratteri, iscritti fin dalle origini nel cuore di ogni uomo, sono fissati nel Decalogo (“Non uccidere”: Es 20,13) e protetti sia dal “no” all’omicidio, che dal “sì” all’amore verso il prossimo.
D’altronde questa vita, benché sia vissuta tutta sulla terra, non trova nutrimento in primo luogo nei beni della terra, ma nell’attaccamento a Dio “sorgente della vita” (Sal 35 [36],10), la cui grazia “vale più della vita” (Sal 62 [63],4).
Più che della vita felice nella sua terra, Israele peccatore fa però l’esperienza della morte. Tuttavia Dio persiste nel chiamarlo alla vita. I profeti lo chiamano a “convertirsi ed a vivere” (cf. Ez 33,11; le ossa aride: Ez 37,1-14; il servo di JHWH: Is 53). La persecuzione farà comprendere che si può morire per essere fedeli a Dio: la morte “per Dio” non separa da lui, ma porta alla vita mediante la risurrezione (cf. 2Mac 7,23.36). Le anime dei giusti sono fin d’ora “nelle mani di Dio” (Sap 3,1).
Il dono della vita è dono d’amore. La Bibbia infatti è narrazione di una “storia d’amore” (abbastanza movimentata!) tra Dio e il suo popolo, in cui matrimonio e famiglia sono inseriti. Dio si rivela progressivamente come Amore; gli uomini imparano ad amarlo e ad amarsi tra loro.
L’amore di Dio si rivela nella Legge che, tra le dieci parole, ne ha alcune specialmente dedicate al rispetto del matrimonio e della famiglia (cf. Es 20,12.14.17).
I profeti, in particolare, si servono della realtà matrimoniale per condurre alla comprensione dell’amore di Dio, della comunità di grazia tra JHWH ed Israele (cf. Os 1-3; Is 54,5-10). Anche l’esperienza negativa dell’infedeltà e del tradimento si presta, paradossalmente, a rilevare l’amore e la fedeltà senza pentimenti da parte di Dio. Osea giunge a sottoporre la classica categoria teologica dell’alleanza ad un’originale reinterpretazione. Al linguaggio dell’alleanza (presentata nei patriarchi ed al Sinai con connotati di stampo politico-militare) si intreccia quello nuziale: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (Os 2,21).
I testi “sapienziali” dal canto loro esprimono il valore e la bellezza dell’amore e della relazione interpersonale che unisce gli sposi (cf. Tb 8,6.17; Pr 5,15-19; Qo 9,9; Sir 36,22-25). Nonostante le diverse condizioni culturali e sociali, e l’ottica maschile che predomina nel discorso, la letteratura sapienziale esprime il valore e la bellezza dell’amore e della relazione interpersonale che unisce gli sposi, nell’ottica della buona riuscita dell’uomo nella vita. Ciò spiega la felicità che nasce dall’avere accanto una donna virtuosa ed una numerosa discendenza:
“Chi ha trovato una moglie ha trovato una fortuna, ha ottenuto il favore del Signore” (Pr 18,22).
“La tua sposa come vite feconda, nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa… Possa tu vedere i figli dei tuoi figli”: Sal 127 (128),3.6.
“Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo” : Sal 126 (127),4.
Il Cantico dei cantici può essere considerato come l’espressione più ricca e completa del tema nuziale. Si tratta di una celebrazione dell’amore umano, in cui la tradizione ebraico-cristiana ha letto una grande allegoria del rapporto sponsale fra Dio ed il suo popolo. Un amore umano, dunque, nel quale, però, si legge il mistero dell’amore di Dio. Il Cantico contiene espressioni ineguagliate sul mistero dell’amore-comunione, che lega per sempre due persone: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6-7).

c) Nella pienezza del tempo (cf. Gal 4,4)
Con la venuta del Salvatore, le promesse diventano realtà.
Gesù annuncia la vita perché Dio “non è un Dio dei morti ma dei viventi” (Mc 12,27p.). Da un lato ribadisce la validità del comandamento “non uccidere”; dall’altro esige una “giustizia superiore” (cf. Mt 5,21-22). Nello stesso tempo, egli esplicita le esigenze positive del comandamento, dando loro vigore e profondità (cura del fratello, estraneo, amore del nemico). Egli stesso guarisce e restituisce la vita. Questo potere di dare la vita è il segno che egli ha potere sul peccato (cf. Mt 9,6) e che apporta la vita che non muore, la “vita eterna” (cf. Mt 19,16p.; 19,29p.), la vera vita. Per entrarvi e possederla bisogna prendere la via stretta, sacrificare tutte le proprie ricchezze, persino la vita presente (cf. Mt 7,14; Mt 16,25-26).
Gesù non solo annuncia ed opera ma è nella sua stessa persona il “Vangelo della vita”, il “Verbo della vita” (1Gv 1,l). “Parola fatta carne” (cf. Gv 1,4.14), egli dona la vita in abbondanza (cf. Gv 10,10) a tutti coloro che il Padre suo gli ha dato (cf. Gv 17,2). Egli è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Egli dà un’acqua viva che diventa “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” in colui che la riceve (Gv 4,14). “Pane della vita”, egli dà a colui che mangia il suo corpo di vivere per mezzo suo, come egli vive per il Padre (Gv 6,48.57). Ciò suppone la fede: chi vive e crede in lui, non morirà in eterno (cf. Gv 11,25-26).
Ciò che richiede, Gesù lo fa per primo; ciò che annunzia, lo dà. Liberamente, per amore verso il Padre e verso i suoi, come il buon pastore per le sue pecore, Gesù offre la sua vita (= “la sua anima”: cf. Gv 10,11; 1Gv 3,16). Ma lo fa per far dono della vita a tutti coloro che credono in lui. Gesù Cristo, morto e risorto, è “l’autore della vita” (At 3,15).
Proprio nella precarietà dell’esistenza umana Gesù porta a compimento il senso della vita. Del resto, nel momento culminante della Croce, Gesù rivela nella morte (ossia in un donarsi che è fonte di vita) tutta la grandezza della vita. Il Vangelo della vita si compie sull’albero della Croce.
Il passaggio dalla morte alla vita si ripete in colui che crede in Cristo (Gv 5,24) e, “battezzato nella sua morte” (Rm 6,3), “vive per Dio… in Cristo Gesù” (Rm 6,10-11). Egli non vive più per se stesso, ma per colui che è morto e risuscitato per lui (cf. 2Cor 5,15); per lui “il vivere è Cristo” (Fil 1,21).
Già in questa terra il cristiano, quanto più partecipa alla morte di Cristo e porta le sue sofferenze, tanto più manifesta la sua vita sin nel proprio corpo (cf. 2 Cor 4,10). La morte corporale non indica una sconfitta della vita, ma la rende stabile e la fa fiorire in Dio, che ingoia la morte nella sua vittoria (cf. 1Cor 15,54-55). Paolo desidera morire per “essere con Cristo” (Fil 1,23). Nella vita eterna si sarà simili a Dio e lo si vedrà come egli è (cf. 1Gv 3,2), “a faccia a faccia” (1Cor 13,12).
Questa vita avrà tutta la sua perfezione nel giorno in cui il corpo stesso, risuscitato e glorificato, vi avrà parte, quando si manifesterà Cristo la nostra vita (cf. Col 3,4), nella Gerusalemme celeste. Allora non ci sarà più morte (cf. Ap 21,4), e Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
La vita cristiana si delinea come sequela di Gesù, come partecipazione profonda ai suoi Misteri ed imitazione del suo stile di esistenza, che ha come motivo dominante l’agápe, l’amore.
Il principio etico fondamentale, la virtù sulla quale si impernia la vita cristiana è dunque la carità. L’esistenza del credente è vita di amore come dono di sé all’altro. Donandosi totalmente agli uomini, Dio chiede loro la risposta di un dono altrettanto totale: cf. il “comandamento della carità” riportato da tutti i Vangeli sinottici (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).
Gesù ritiene fatto a sé ogni gesto di misericordia nei confronti di “uno solo di questi miei fratelli più piccoli” (Mt 25,40).
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”: Gv 13,34-35. “Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi”: 1Gv 4,11-12.
Nella carità di Cristo la sessualità ritrova la vocazione originaria ad essere segno e strumento di comunione.
Se Gesù vive senza sposarsi, votandosi interamente alla missione assegnatagli da Dio, e vede anche per i suoi discepoli questa forma di vita come una possibilità, una vocazione di grazia “per il regno dei cieli” (Mt 19,12), nondimeno egli ha un’altissima considerazione ed un profondo rispetto per il matrimonio che Dio stesso ha istituito “all’inizio della creazione” (Mc 10,6p.; cf. Gen 2,24).
Solo su questo sfondo si può pienamente comprendere il richiamo preciso di Gesù all’unità ed indissolubilità del Matrimonio: “L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Mc 10,9).
Il messaggio è accolto da Paolo il quale, pur esaltando la verginità, che “amplia” l’amore e dirige chiaramente all’eschaton, riafferma la dignità del matrimonio, ribadendo la fedeltà e l’indissolubilità che deve caratterizzarlo (cf. 1Cor 7). I credenti si sposano “nel Signore” (1Cor 7,39).
In Ef 5,21-33 abbiamo un approfondimento teologico. Il brano è dominato dall’immagine della “sola carne” di Gen 2,24, accostando le due coppie Cristo-Chiesa e uomo-donna. L’Apostolo “discende” dall’amore di Cristo per la Chiesa all’amore dell’uomo per la donna.
Il discorso si svolge tutto sotto il segno dell’amore: il rapporto marito-moglie viene modulato su quello Cristo-Chiesa, che è rapporto di amore. Il riferimento al legame Cristo-Chiesa non significa per gli sposi guardare semplicemente ad un modello: Cristo, in effetti, afferra e purifica tale realtà.
Il matrimonio cristiano si immerge nel mistero stesso di Dio, che è il suo progetto salvifico (cf. Ef 5,32: “Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”); si apre ad orizzonti più ampi nella dimensione della ecclesialità, servendo all’edificazione ed alla crescita della Chiesa.
L’amore coniugale è visto nella prospettiva dell’amore-agápe rivelato in Cristo, senso nuovo e norma di vita del cristiano, e quindi della sua vita coniugale e familiare. L’agápe assume in sé e nobilita tutto il linguaggio della tenerezza coniugale. In esso si riassumono tutti gli imperativi morali riguardanti la vita della coppia e della famiglia.
L’amore-agápe non è solo sponsale, ma anche paterno, materno, fraterno... Così, nel cap. successivo della lettera (Ef 6,1-9) Paolo considera tutti i membri componenti la famiglia.
Eppure anche la famiglia, come il matrimonio, non è un assoluto. Si profilano nuovi legami con Dio. Anche all’interno dei vincoli familiari i rapporti sono nuovi. Globalmente si vede una famiglia in tensione a causa del Vangelo:
Mc 3,31-35: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: ‘Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano’.
Ma egli rispose loro: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’.
Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre’”.
Nel Vangelo emerge uno spirito di libertà nei confronti dei legami di sangue ed un certo senso di relatività delle strutture familiari, per il dono di un legame “parentale” con Cristo, non secondo la carne, ma secondo la fede, che viene ad essere prioritario.
Del resto, il Vangelo si apre con la descrizione del formarsi di una famiglia “unica”, in cui si uniscono matrimonio e verginità e in cui Dio viene ad abitare. La S. Famiglia ha valore esemplare:
“Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo... Essa ci insegna il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile...”: PAOLO VI, Discorso 5/1/1964 a Nazaret; cf. Liturgia delle Ore, Ufficio delle Letture nelal festa della Santa Famiglia.

2. Vocazione all’amore: matrimonio e famiglia. Fedeltà e apertura alla vita

2.1. Concezione cristiana della sessualità
Talora l’etica sessuale viene colta come proposta-imposizione di tutta una serie di proibizioni. Occorre invece riconoscere come dal punto di vista cristiano - ma anche in una sana filosofia morale - i divieti non sono mai la cosa più importante, ma costituiscono soltanto l’aspetto negativo di un assenso ai veri valori della vita. Questo pur riconoscendo senza timori il valore imprescindibile del comandamento.
La sessualità è presente ed influenza i diversi aspetti della vita umana: essa è un modo di essere al mondo come maschio-femmina che riguarda tutto l’essere umano, nelle sue diverse manifestazioni e dimensioni.
Essa però non può essere ridotta a pura genitalità, a sesso. Si può a motivo distinguere una sessualità generica (che si manifesta nelle diverse espressioni che denominiamo “maschili” o “femminili”) da una sessualità genitale (che coinvolge direttamente gli organi sessuali ed il loro “uso”).
La sessualità è strettamente legata all’identità personale: riguarda l’essere prima che l’agire. Anche a livello magisteriale si riconosce:
“La persona umana, a giudizio degli scienziati del nostro tempo, è così profondamente influenzata dalla sessualità, che questa deve essere considerata come uno dei fattori che danno alla vita di ciascuno i tratti principali che la distinguono. Dal sesso, infatti, la persona umana deriva le caratteristiche che sul piano biologico, psicologico e spirituale la fanno uomo o donna, condizionando così grandemente l’iter del suo sviluppo verso la maturità e il suo inserimento nella società” (PH 1: EV 5/1717; EF 1507).
Nonostante il carattere ambivalente di alcune sue espressioni (egoismo, sfruttamento...), la sessualità umana nelle sue manifestazioni autentiche rivela che la persona è un “essere per l’altro”, un essere che non basta a se stesso, ma ha bisogno dell’“altro”. Un “altro” che può essere considerato una “porta”, dietro la quale se ne possono aprire molte altre, sino a quella che immette sull’“Altro” che è Dio (cf. la riflessione sul “volto” di E. Lévinas).
In una corretta visione dell’etica cristiana riguardante la sessualità, che - naturalmente - si colloca e si comprende solamente all’interno del quadro dell’amore di Dio e del prossimo, si pongono alcune affermazioni (cf. Congr. per l’ed. catt., Orientamenti educativi sull’amore umano [1/11/1983], 22-31: EV 9/440-449):
- Innanzitutto si riconosce al corpo un significato di natura antropologica: il corpo rivela l’uomo, esprime la persona, consente di percepire il senso della sua vita e della sua vocazione.
- Il corpo presenta anche un significato di natura teologale: esso rivela all’uomo Dio ed il suo amore creatore, manifestandogli la sua creaturalità, la sua dipendenza da un dono d’amore.
- In quanto sessuato, il corpo esprime pure la vocazione dell’uomo alla reciprocità, cioè all’amore ed al dono di sé: uomo e donna sono due modi di partecipazione alla vita stessa di Dio.
- La presenza del peccato rende meno facile la percezione di questi messaggi.
- Il mistero dell’uomo trova vera luce soltanto nel mistero del Verbo incarnato (cf. GS 22; EV 1/1475). La sessualità appare così vocazione a realizzare l’amore che lo Spirito infonde nei credenti.
- Gesù ha indicato pure la vocazione alla verginità per il Regno dei Cieli. La “fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” è l’amore (FC 11: EV7/1557; EF 507). E all’amore l’uomo è chiamato nella sua “totalità unificata” di spirito incarnato (cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale). La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione all’amore della persona umana, nella sua interezza: il matrimonio e la verginità (cf. FC 11: EV 7/1558-1559; EF 508-509).
La vita affettiva, propria di ciascun sesso, si esprime dunque in modo caratteristico nei diversi stati di vita: l’unione dei coniugi, il celibato consacrato scelto per il Regno, la condizione del cristiano che non ha raggiunto il momento dell’impegno matrimoniale o perché rimane tuttora celibe, o perché ha scelto di conservarsi tale. La sessualità diventa personale e veramente umana allorché è integrata nella relazione da persona a persona (cf. Orientamenti educativi sull’amore umano 32-33: EV 9/450-451).

2.2. Traguardo e mezzi
Il cammino ed il traguardo del cristiano in questo campo di crescita è contraddistinto dalla virtù della castità, intesa come l’impegno di integrare e canalizzare l’istinto sessuale. La castità esprime la positiva integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l’unità interiore dell’essere umano nel suo essere corporeo e spirituale.
Il tenore del discorso è, dunque, innanzitutto positivo. Paolo lo ha così riassunto: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1Cor 6,20). La castità non è perciò una virtù meschina, ma consiste, attraverso il rispetto della grandezza del corpo, nel rendere gloria a Dio che ne è il Creatore e che, dal momento dell’Incarnazione, ha assunto in Gesù un corpo di carne.
La castità domanda l’acquisizione del dominio di sé, che è pedagogia per la libertà umana. Si tratta di un’opera di lungo respiro, da non ritenere acquisito una volta per tutte; che conosce leggi di crescita, che implica uno sforzo culturale, che domanda l’uso di mezzi appropriati, quali: la conoscenza di sé, la pratica di un’ascesi adatta alle situazioni in cui viene a trovarsi, l’obbedienza ai comandamenti, l’esercizio delle virtù morali, la fedeltà alla preghiera.
Grazie ad essa, la persona “unifica” le proprie energie, esercitando una giusta “signorìa” su di sé. Agostino afferma che “la continenza in verità ci raccoglie e ci riconduce a quell’unità, che abbiamo perduto disperdendoci nel molteplice” (Conf. 10,29,40, cit. in C 2340).
E la padronanza di sé è ordinata al dono di sé. Sotto l’influsso della carità, “forma” di tutte le virtù, la castità si sviluppa come una scuola del dono della persona, nelle due diverse modalità del matrimonio e della verginità. Entrambe, se vissute fedelmente, esprimono l’ordo amoris, attuando scelte “ordinate” alla gerarchia dei valori (quindi buone, giuste), ed evitando appunto quelle “disordinate” (cattive, disoneste).
Il disegno di Dio è che noi, anche attraverso l’uso della nostra sessualità, diventiamo santi:
“Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio... Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione” (1Ts 4,3-7).
Consideriamo ora in modo particolare il matrimonio.

2.3. Matrimonio: lo sviluppo nella storia
Lo sfondo umano assume un valore tutto particolare, poiché è lo spessore umano delle persone nel loro reciproco darsi ed accogliersi a diventare segno sacramentale della Grazia. Il momento sacramentale non è separato da quello antropologico: il segno sacramentale coincide con la comunione vitale tra l’uomo e la donna, i quali ne sono ministri e destinatari nella fede. Ognuno diventa “grazia” per l’altro.
Come abbiamo visto, la Scrittura stessa presenta sin dalle prime pagine come il rapporto uomo-donna nel progetto di Dio conduce alla fondazione di una famiglia, caratterizzata da unicità e indissolubilità (“una sola carne”: Gen 2,24), ma anche dalla fecondità (“Siate fecondi e moltiplicatevi”: Gen 1,28). Il peccato infrange questo equilibrio, ma Dio continuamente riprende il dialogo con le sue creature.
Gesù giunge ad abolire la stessa norma biblica sul ripudio (cf. Dt 24,1), richiamando al disegno della creazione, al volere di Dio (cf. Gen 2,24): “L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Mc 10,9). Si tratta di un’esigenza assoluta, che si può comprendere in definitiva solo a partire dalla signoria di Dio annunciata da Gesù. Questa comporta un nuovo ordinamento e richiede una nuova condotta, contraria alla precedente (cf. i comportamenti in relazione alla violenza e al potere).
Chi segue la chiamata di Dio è responsabile davanti a Dio stesso per la creatura che ha con lui il vincolo più stretto, cioè quello matrimoniale: dapprima i mariti, ritenuti allora i responsabili; più tardi, già nella Chiesa primitiva, anche le mogli (cf. Mc 10,12). In luogo del diritto matrimoniale vigente, subentra un comandamento più alto: la responsabilità reciproca, in definitiva l’amore, che lega i coniugi l’uno all’altro.
La vicenda storica della teologia del matrimonio ci mostra l’impegno della comunità ecclesiale nel “rileggere” cristianamente l’amore coniugale, ma anche le preoccupazioni giuridiche e pastorali, che conducono a chiarificare la natura e gli impegni del vincolo sponsale.
Così s. Agostino riconosce come valori intrinseci al matrimonio i tre “beni”: bonum prolis, fidei, sacramenti (cf. De bono coniugali, ripresi in Casti connubii 11). S. Tommaso considera il matrimonio nei suoi diversi aspetti come istituzione naturale, sacramento, istituto civile; ne individua l’essenza nella nuova relatio fra i due contraenti; ritiene la famiglia la prima forma di comunità (cf. CG 3,122-126; 4,78; Suppl. qq. 41-68). Più vicino a noi va ricordato l’apporto del personalismo cristiano, che viene a focalizzare la ricchezza del rapporto interpersonale degli sposi.
Negli ultimi decenni anche la riflessione magisteriale si è particolarmente approfondita. L’apporto del Vaticano II (cf, fra gli altri testi, LG 11. 35. 41: EV 1/314. 376. 394; AA 11: EV 1/952-957; GS 47-52: EV 1/1468-1491) è stato sviluppato dal ricco magistero di Paolo VI (cf. Humanae vitae, 25/7/1968) e di Giovanni Paolo II (cf. almeno Familiaris consortio, 22/11/1981; Catechesi sull’amore umano, 1979-1984; Lettera alle famiglie, 2/2/1994).
Anche l’azione pastorale a favore della famiglia, non priva di una certa azione conservatrice di un ordine di cui la famiglia appare come il grande e naturale baluardo, sfocia infine nella fioritura di una spiritualità coniugale e familiare, che cerca di promuovere la santificazione degli sposi proprio attraverso la vita matrimoniale ordinaria (cf, ad es., le iniziative della Comunità di Caresto).
Per la Chiesa italiana significativi sono i diversi contributi della CEI, confluiti e sistematizzati nel Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia nel 1993.
L’impegno nei diversi campi ha portato ad un approfondimento della lettura teologica del matrimonio, che progressivamente ha evidenziato la necessità di partire dal sacramento, ma anche dal valore dell’amore, focalizzando la correlazione esistente tra famiglia, Chiesa, mondo e Regno.

2.4. Matrimonio: incontro con Dio
La teologia del matrimonio può essere oggi presentata partendo dal principio che tutta la vita cristiana è sviluppo di ciò che è contenuto germinalmente nel Battesimo, espressione di ciò che è offerto come possibilità di grazia e di salvezza negli altri sacramenti, tensione verso la pienezza dell’incontro con Cristo, realizzato prefigurativamente nell’Eucaristia.
Oltre la prospettiva giuridica del “contratto”, si tratta di vedere il matrimonio nell’ottica del patto di alleanza fra Dio ed Israele, fra Cristo e la sua Chiesa.
Il Concilio, evocando una messe di testi biblici, punta chiaramente sulla realtà di Dio che viene incontro all’uomo e alla donna e resta con loro: “Cristo Signore ha effuso l’abbondanza delle sue benedizioni su questo amore multiforme, sgorgato dalla fonte della divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa. Infatti, come un tempo Dio venne incontro al suo popolo con un patto di amore e fedeltà [cf. Os 2; Ger 3,6-13; Ez 16. 23; Is 54], così ora il Salvatore degli uomini e sposo della Chiesa [cf. Mt 9,15; Mc 2,19-20; Lc 5,34-35; Gv 3,39; 2Cor 11,2; Ef 5,27; Ap 19,7-8; 21,2.9] viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come Egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per lei [cf. Ef 5,25], così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione” (GS 48: EV 1/1472; EF 12).
Il matrimonio va dunque letto come aspetto del “grande mistero” di Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5,32). In questa luce il Concilio rileva come “l’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino”, di modo che i coniugi sono “corroborati e come consacrati” dal sacramento nuziale, e vivendone le esigenze, sono incamminati sulla via della santità (cf. ib.).
Nel sacramento Cristo dona dunque agli sposi un nuovo modo di essere per il quale sono come configurati a lui, sposo della Chiesa e posti in un particolare stato di vita entro il popolo di Dio. Tutta la loro esistenza viene ad essere improntata dalla “quasi-consacrazione” che essi ricevono nel sacramento di cui, almeno secondo la teologia occidentale, sono ritenuti ministri (cf. C 1623).
L’esortazione liturgica prima dello scambio del consenso ricorda significativamente agli sposi che essi sono venuti insieme nella casa del Padre, perché il loro amore riceva “il suo sigillo e la sua consacrazione davanti al ministro della Chiesa e davanti alla comunità”. Precisa però che sono già consacrati nel Battesimo: il nuovo sacramento è donato perché si amino fedelmente ed assumano responsabilmente i doveri del matrimonio, ovvero vivano il loro amore in conformità alla morale cristiana.

2.5. Matrimonio: sacramento da vivere
Parlare di morale, lo sappiamo, è in certo senso parlare di dovere, di norme obbliganti, ma la morale cristiana, prima che sul dovere, è fondata sulla grazia. Infatti, prima di darci i suoi comandi, la Parola di Dio opera in noi quell’azione di salvezza da cui il comando scaturisce poi come logica interna del dono, e da cui viene la capacità radicale di farvi fronte.
Anche la morale matrimoniale deve accogliere l’invito del Concilio ad impegnarsi per illustrare e “l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16: EV 1/808; cf. VS 7. 29: EV 13/2548. 2610).
Assumendo come punto di partenza lo specifico cristiano, il discorso morale non trascura tuttavia, ma si propone di valorizzare tutto l’umano. Questo vale in particolare per la morale coniugale: lo specificamente cristiano è lo stesso sacramento del matrimonio che assume l’autentico amore umano e con il suo “carattere” consacratorio e dunque, in certo modo, permanente, ne costituisce il principio vitale e l’esemplare. Al sacramento del matrimonio deve essere dunque ricondotta, come a suo fondamento ed a suo costante sostegno, la vita morale della coppia cristiana nei suoi molteplici valori ed impegni, anche quelli radicati nella stessa natura dell’uomo.
Il sacramento del matrimonio diventa dunque la legge nuova della coppia cristiana. Infatti, mentre testimonia l’amore gratuito di Dio, la grazia sollecita negli sposi la loro libera risposta di credenti mediante un’esistenza conforme al dono ricevuto. La morale coniugale cristiana non rimane così una imposizione esteriore, ma diventa un’esigenza della vita di grazia, un frutto dello Spirito che agisce nel cuore degli sposi e li guida alla libertà dei figli di Dio.
Come tutti gli altri sacramenti, il matrimonio non solo presuppone la fede, ma anche la esprime e la rafforza. Più la fede dei coniugi sarà attiva, maggiore sarà la partecipazione del dono che ricevono ed il sostegno per affrontare gli impegni che il dono comporta.
Nella fede si coglie come il primo dono-impegno del matrimonio cristiano è l’amore coniugale, che si iscrive nel più generale ambito dell’amore con cui Dio ama l’uomo e con cui l’uomo risponde a tale amore gratuito. Gli sposi cristiani sono così aiutati dalla grazia sacramentale a vivere, purificandole, le dimensioni tipiche dell’amore coniugale che, come ricorda Paolo VI, è umano, totale, fedele, fecondo (cf. HV 9: EV 3/595; EF 51-55).
Si tratterà di un amore capace di fondere in armoniosa sintesi i valori dello spirito, dell’affettività e della corporeità, sino a realizzare una profonda unità personale che, al di là dell’“una sola carne” conduce a “un cuore solo e un’anima sola” (cf. FC 13: EV 7/1570; EF 520).
In questo orizzonte trova tutto il suo significato la sessualità, mediante la quale uomo e donna si donano l’uno all’altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi. Essa “non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l’intimo nucleo della persona umana come tale” e “si realizza in modo veramente umano solo se è parte integrale dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altro fino alla morte” (FC 11: EV 7/1560; EF 510).
Per il credente infatti l’amore, oltre che dono, è impegno affidato a quella libertà spirituale che, entro certi limiti, può dominare i sentimenti spontanei, o almeno a questo è chiamata, in quanto un impegno è una responsabilità per sempre.

2.6. Fedeltà e indissolubilità
Quello degli sposi è un amore fedele ed indissolubile, dono dell’amore fedele di Dio rivelato in Cristo, che richiama al progetto primordiale della creazione. L’indissolubilità del vincolo coniugale è la proiezione della fedeltà nella sua dimensione etica e religiosa, che assume tuttavia una valenza primariamente teologica e morale, più che giuridica e sociologica.
Si tratta infatti di un “vincolo sacro in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della società”, che “non dipende dall’arbitrio dell’uomo” (GS 48: EV 1/1471; EF 11). La Chiesa sente come suo dovere ribadire “il lieto annuncio della definitività di quell’amore coniugale, che ha in Gesù Cristo il suo fondamento e la sua forza [cf. Ef 5,25]” (FC 20: EV 7/1586; EF 536).
Chiaramente si tratta di un dono da coltivare con una crescita continua dei coniugi e da custodire con coscienza vigile e formata, attenta al pericolo di logoramento che potrebbe introdursi nella comunità coniugale. Il coltivare l’unione di coppia, escludendo altre possibilità, consente di affrontare l’immancabile disillusione e di integrare positivamente l’elemento inevitabile di rinuncia: un “sì” è sempre accompagnato da dei “no”.
La stessa possibilità di una crisi o del fallimento, seppur sconvolgente, richiede una risposta attiva ed impegnativa, cercando motivazioni per creare una condizione di vita che sia accettabile. Le forze morali possono crescere sotto la spinta della responsabilità assunta per amore. Si tratta di rendere positiva, od almeno accettabile, la propria scelta coniugale, anche se si riconoscono errori e difficoltà di comunione. Occorre interrogarsi anche sulla responsabilità verso tutti coloro che sono coinvolti: l’altro coniuge, i figli...
Anche di fronte a fallimenti a prima vista irrimediabili, resta ferma la fedeltà di quell’Amore, da cui l’amore coniugale è sgorgato, ed alla cui sorgente è sempre possibile attingere le energie per una rinascita ed un rinnovamento, anche radicali, dell’amore.
Se il coniuge cristiano non può mai sentirsi sciolto dal vincolo coniugale, è appunto perché egli non può mai essere sciolto dall’impegno di amare, ricominciando magari da capo, perdonando, con disinteresse, senza attendere ricompensa.
Molti problemi della coppia nascono in realtà dal fatto che nessuno dei due coniugi è veramente disposto ad abbandonarsi all’amore ed alla sua logica esigente, ma trasformante; amore che spesso potrebbe avere un certo effetto di ripensamento e di stimolo nell’altro coniuge.
Certamente un amore di questo genere può essere capito pienamente soltanto alla luce della Croce, del Cristo sposo “che ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Ma si tratta di una croce illuminata dalla speranza della risurrezione, anche se pienamente si manifesterà solo al di là di questa vita e dei suoi inevitabili fallimenti e sofferenze.
La famiglia richiede l’impegno ed il sacrificio di tutti, che si manifestano in modo speciale nel perdono, sostenuto e reso possibile dai Sacramenti:
“Ogni famiglia è sempre chiamata dal Dio della pace a fare l’esperienza gioiosa e rinnovatrice della ‘riconciliazione’, cioè della comunione ricostruita, dell’unità ritrovata. In particolare la partecipazione al sacramento della riconciliazione e al banchetto dell’unico corpo di Cristo offre alla famiglia cristiana la grazia e la responsabilità di superare ogni divisione e di camminare verso la piena verità della comunione” (FC 21: EV 7/1593; EF 543).

2.7. Apertura alla vita
L’amore coniugale è chiamato anche ad essere fecondo. Amore e fecondità-procreazione sono realtà appartenenti ad un’unità vitale: “Per sua indole naturale, l’istituto stesso del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento” (GS 48: EV 1/1471; EF 11), essendo i figli “il preziosissimo dono del matrimonio” e contribuendo essi in modo rilevante al bene degli stessi genitori (cf. GS 50: EV 1/1478; EF 18).
La trasmissione della vita umana e l’educazione conseguente sono doveri che i coniugi devono adempiere “con umana e cristiana responsabilità”. Al riguardo gli sposi sono tenuti a formarsi, davanti a Dio, un retto giudizio, che tenga conto dei diversi beni coinvolti, nella consapevolezza però che essi “non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che si deve conformare alla legge divina stessa, docili al Magistero della Chiesa, che in modo autentico quella legge interpreta alla luce del Vangelo” (GS 50: EV 1/1479; EF 19).
Paolo VI nell’Humanae vitae espone e motiva i criteri che guidano la giusta regolazione della natalità. Alla luce di “una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna” (HV 7: EV 3/593; EF 47), in cui si colloca un’esatta concezione dell’amore coniugale (pienamente umano, totale, fedele e fecondo: cf. HV 9: EV 3/595; EF 51-55), la procreazione responsabile deve rispettare la “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (HV 12: EV 3/598; EF 63). Rompere questo nesso “è contraddire alla natura dell’uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua santa volontà” (HV 13: EV 3/599; EF 65).
Per la regolazione delle nascite non è dunque lecito né interrompere il processo generativo già iniziato con l’aborto (perché di tratta di uccisione di una vita umana); né ricorrere alla sterilizzazione, né compiere qualsiasi azione che, “o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione” (HV 14: EV 3/600; EF 68). Con quest’ultima espressione il Papa condanna i mezzi artificiali di regolazione delle nascite (interruzione dell’atto, mezzi meccanici e chimici, come le varie pillole).
Non contraddice invece ai principi sopra affermati il ricorso, per seri motivi, ai periodi infecondi per il controllo delle nascite. La differenza tra le due fattispecie non è infatti legata solo all’intenzione, ma anche al fatto che in questo caso i coniugi usufruiscono in modo legittimo di una disposizione naturale; con la contraccezione, invece, impediscono lo svolgimento dei processi naturali (cf. HV 16: EV 3/602; EF 73).
Giovanni Paolo II ha approfondito il discorso, spiegando come la contraccezione non rispetta il valore teologico ed antropologico della capacità procreativa dei coniugi.
Il valore teologico è legato all’imprescindibile riferimento a Dio Creatore della capacità di generare: “Quando i coniugi, mediante il ricorso alla contraccezione, scindono questi due significati che Dio creatore ha inscritti nell’essere dell’uomo e della donna e nel dinamismo della loro comunione sessuale, si comportano come ‘arbitri’ del disegno divino” (FC 32e: EV 7/1622; EF 572).
Il valore antropologico della sessualità consiste nell’esprimere la reciproca donazione totale dei coniugi. A questo “linguaggio nativo”, la contraccezione sostituisce “un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all’altro in totalità: ne deriva, non soltanto il positivo rifiuto all’apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale” (FC 32e: EV 7/1622; EF 572).
Il Papa affida alla riflessione teologica il compito di cogliere ed approfondire la differenza antropologica e al tempo stesso morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali. Alla luce della stessa esperienza di tante coppie di sposi e dei dati delle scienze umane, si può comprendere come si tratta di una differenza assai più vasta e profonda di quanto abitualmente non si pensi e che coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili. Infatti
“la scelta dei ritmi naturali comporta l’accettazione del tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l’accettazione anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità, del dominio di sé. Accogliere poi il tempo e il dialogo significa riconoscere il carattere insieme spirituale e corporeo della comunione coniugale, come pure vivere l’amore personale nella sua esigenza di fedeltà. In questo contesto la coppia fa l’esperienza che la comunione coniugale viene arricchita di quei valori di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l’anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica. In tal modo la sessualità viene rispettata e promossa nella sua dimensione veramente e pienamente umana” (FC 32d: EV 7/1624; EF 574).
Giovanni Paolo II si è pure impegnato a svolgere un’organica trattazione nelle Catechesi tenute nelle udienze generali (1979-1984) che, a suo avviso, “in un certo senso... sembrano costituire un ampio commento alla dottrina contenuta appunto nell’enciclica Humanae vitae” (Uomo e donna lo creò…, 495).

2.8. Difficoltà e gradualità
Nei confronti dell’insegnamento magisteriale vengono proposte con frequenza difficoltà, sia in relazione ad una supposta visione “biologistica” degli atti coniugali, come ad una presunta impossibilità di utilizzo o di efficacia dei metodi naturali stessi.
Non possiamo diffonderci nelle risposte. Possiamo però ricordare che la contraccezione non è moralmente negativa solo perché “artificiale”, ma perché non rispetta la dignità delle persone e non è segno di un amore totale. Essa può rappresentare anche un attentato alla vita umana, laddove sono utilizzati mezzi abortivi (spirale ed alcuni tipi di “pillola”) o nel caso in cui, in presenza di un eventuale “fallimento” della tecnica, si ricorra all’aborto.
Del resto, per inciso, va ricordato che anche i “metodi naturali” possono essere “usati” egoisticamente, se la coppia si chiude colpevolmente nei confronti della vita.
Quanto all’“efficacia”, premesso che non può essere questo il criterio per stabilire la liceità di un metodo, studi recenti mostrano che, con una corretta applicazione, si possono ottenere risultati paragonabili a quelli raggiunti dai mezzi artificiali (cf., ad es., J. Roetzer, La regolazione naturale della fertilità. Il metodo sintotermico di Roetzer, Cortina, Verona 19952, 91-93).
Indubbiamente è necessaria alla coppia una forte motivazione, in grado di sostenere la fatica dell’apprendimento e dell’utilizzo del metodo, che richiede tempo, continuità e capacità di controllo. Del resto, numerosi sono i vantaggi riscontrati da coloro che utilizzano i metodi naturali (cf. M 299, n. 77). Ricordiamo come siano stati appresi anche da parte di utenti in condizioni assai svantaggiate (ad es., in zone povere dell’India) e come l’astensione dai rapporti richiesta dai metodi possa favorire, non un allontanamento, ma una maggiore comunicazione fra i coniugi.
Non bisogna poi mai dimenticare che la morale presenta sempre una dimensione pedagogica. Anche le norme morali riguardanti la procreazione responsabile possono essere realizzate con l’aiuto ineliminabile della grazia, con l’impegno - a volte prolungato - e con passi successivi.
In questo contesto si colloca la “legge della gradualità”. Giovanni Paolo II riconosce che:
“l’uomo chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita” (FC 34; EV 7/1631; EF 581).
Anche gli sposi, nella loro vita morale, sono chiamati ad un continuo cammino, sostenuti dal desiderio di conoscere sempre meglio i valori proposti dalla legge divina, e dalla volontà di incarnarli nelle loro scelte concrete. Le eventuali difficoltà coniugali non devono però essere risolte a danno della verità. Perciò, gli sposi, nota il Papa, “non possono guardare alla legge solo come ad un puro ideale da raggiungere in futuro, ma debbono considerarla come un comando di Cristo Signore a superare con impegno le difficoltà” (FC 34: EV7/1632; EF 582).
La cosiddetta “legge della gradualità”, o cammino graduale, non può dunque identificarsi con la “gradualità della legge”, come se esistessero diversi gradi e forme di precetto nella legge di Dio per diverse persone e situazioni. In quest’ottica
“rientra nella pedagogia della Chiesa che i coniugi anzitutto riconoscano chiaramente la dottrina dell’Humanae vitae come normativa per l’esercizio della loro sessualità, e sinceramente si impegnino a porre le condizioni necessarie per osservare questa norma” (FC 34: EV7/1632; EF 582).
Il Papa, dunque, richiama al fatto che l’“ideale” non resti vago, indeterminato, ma veramente vincolante, come lo è l’esigenza di accordare la propria vita ad un vero ordine morale oggettivo. Quest’ultimo vale per tutti e sempre; l’itinerario personale del soggetto dev’essere perciò contraddistinto dalla serietà di un impegno di attuazione della norma, sia pure faticosa e graduale.
Ma la gradualità della crescita ed il rispetto dei suoi ritmi riguardano non soltanto l’attuazione, ma, ancora più a monte, la comprensione ed accettazione delle norme.
È il problema più generale di una corretta pedagogia delle coscienze, che educhi senza fare violenza, anzi favorendo lo sviluppo interno del senso morale e facendo appello alle stesse energie di bene del soggetto ed al suo amore per la verità.
Gli sposi non devono scoraggiarsi per le possibili cadute. Di grande valore al riguardo risulta il Discorso alle Équipes Notre-Dame sulla famiglia scuola di santità, di Paolo VI (4/5/1970), specialmente per quanto riguarda la vocazione alla santità rivolta alla famiglia e la considerazione della graduale maturazione della castità coniugale:
“Chi non lo sa? Soltanto a poco a poco l’essere umano giunge a gerarchizzare e ad integrare le sue tendenze molteplici, fino ad ordinarle armoniosamente in quella virtù di castità coniugale in cui la coppia trova il suo pieno compimento umano e cristiano.
Quest’opera di liberazione… è il frutto della vera libertà dei figli di Dio, la cui coscienza chiede al tempo stesso di essere rispettata, educata e formata in un clima di fiducia e non di angoscia, in cui le leggi morali, lungi dall’avere la freddezza inumana..., hanno la funzione di guidare la coppia nel suo cammino... senza lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi…
Il cammino degli sposi, come ogni vita umana conosce molte tappe, e le fasi difficili e dolorose... vi hanno anche il loro posto. Ma bisogna dirlo ad alta voce: mai l’angoscia o la paura dovrebbero trovarsi in anime di buona volontà, perché, infine, il Vangelo non è forse una buona novella anche per i coniugi, ed un messaggio che, se pure è esigente, non è meno profondamente liberatore?...
Scoprirsi quasi incapaci di rispettare, sul momento, la legge morale... suscita naturalmente una reazione di sconforto. Ma è il momento decisivo in cui il cristiano... accede, nell’umiltà, alla scoperta sconvolgente... di un peccatore davanti all’amore del Cristo Salvatore” (nn. 14-15; in P. Barberi - D. Tettamanzi [edd.], Matrimonio e famiglia nel Magistero della Chiesa…, Massimo, Milano 1986, 425-442; qui 438-439; sottolineature mie).

2.9. Responsabilità educative nella famiglia: compiti ecclesiali e sociali
a. Il dono-dovere della missione educativa - La “generazione fisica” del figlio trova il suo completamento naturale nell’educazione. L’efficacia dell’influsso educativo dei genitori sui figli è tanto profondo da poter dire che con l’educazione i genitori li generano una seconda volta: li generano a ciò che è propriamente più umano: la vita dello spirito ed il mondo della cultura. Questo influsso è un caso privilegiato del più universale mistero di solidarietà che lega l’uomo agli altri.
Oggi si parla di una certa perdita di rilevanza della famiglia riguardo alla sua funzione educativa. E certamente essa è, oggi più che in passato, affiancata da altre agenzie educative. Ma proprio le scienze dell’uomo ci assicurano che l’influsso della famiglia è ancora e sempre decisivo (cf. certe qualità di fondo della persona: ottimismo o rassegnazione, altruismo od egoismo, serietà o disimpegno morale).
Quanto la famiglia sembra aver perso in estensione orizzontale a favore di altre agenzie, può essere ricuperato in profondità, attraverso una più consapevole preoccupazione di educare gli atteggiamenti di fondo nei confronti della vita.
Indubbiamente i genitori formano questi atteggiamenti prima di tutto con l’esempio, e particolarmente vivendo in maniera autentica il loro amore.

b. Educazione della fede in famiglia e vita nella Chiesa - I genitori vanno considerati come “i primi e i principali educatori” dei figli (GE 3: EV 1/826; in FC 36: EV7/1638; EF 588). Questa missione coinvolge innanzitutto l’educazione alla fede ed alla vita ecclesiale. Infatti è soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita della grazia-missione del Matrimonio-sacramento, che i figli sin dalla prima infanzia possono imparare a percepire il senso di Dio, a mettersi in rapporto con lui e ad amare il prossimo secondo la fede che hanno ricevuto nel battesimo. Nella famiglia, “Chiesa domestica” (LG 11: EV 1/314; cf. AA 11: EV 1/955; in FC 21: EV 7/1590; EF 540), i figli vivono la prima esperienza della società umana e della Chiesa (cf. GE 3: EV 1/826; in FC 60: EV7/1710; EF 660).
Particolarmente nella preghiera comune la famiglia mostra di esercitare il compito sacerdotale che le è affidato, vivendo come comunità in dialogo con Dio, “chiamata a santificarsi ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo” (FC 55: EV 7/1696; EF 646).
La famiglia va evangelizzata, ma dev’essere anche evangelizzatrice. Essa “deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia. Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo stesso Vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita” (EN 71: EV 5/1688-1689; in FC 52: EV 7/1688; EF 638).
Nell’ambito di questa missione evangelizzatrice si rivela oggi in modo drammatico il fenomeno più generale della difficoltà di comunicazione esistente tra genitori e figli; e qui vengono a volte sperimentati l’inefficacia ed il fallimento degli sforzi educativi anche meglio intenzionati ed illuminati. I genitori non devono però rassegnarsi al “fallimento”, ma perseverare nel loro compito, senza cedere alla tentazione dei “frutti immediati” e dei “tempi brevi”.
La famiglia, parte viva della Chiesa, deve contribuire alla edificazione del regno, proprio in quanto famiglia, con la sua vita quotidiana, ma anche assumendosi le responsabilità missionarie, tanto con coloro con cui viene a contatto in forza del vicinato, quanto all’interno della comunità cristiana.

c. Responsabilità sociali - Cellula primaria e fondamentale della società (cf. AA 11: EV 1/955; in FC 42: EV 7/1662; EF 612), la famiglia è il luogo in cui può essere meglio sperimentata e compresa la essenziale socialità dell’uomo, “la prima scuola di virtù sociali” (GE 3: EV 1/826; in FC 36: EV7/1638; EF 588). Nella famiglia tutto è comune, e non per imposizione di legge, ma per amore reciproco. In famiglia ognuno è accettato non per quello che rende, ma per quello che è: una persona umana (e questo costituisce un modello anche per la Chiesa!).
Attraverso la sua stessa vita, che è essenzialmente un vivere insieme, la famiglia educa al senso sociale con facilità e spontaneità, facendo attenzione ad evitare il pericolo del familismo (che è un egoismo di gruppo).
Le famiglie sono chiamate anche ad essere presenti coraggiosamente nei diversi ambiti sociali: la scuola, la vita politica, gli “enti locali”...

2.10. Cura pastorale delle famiglie in situazione difficile o irregolare
1. Carità nella verità - La sollecitudine pastorale, che la Chiesa esercita verso tutte le famiglie, deve farsi più viva verso le persone in difficoltà col matrimonio indissolubile. Superata una certa tendenza all’emarginazione, la Chiesa attualmente si è resa più attenta e sollecita verso coloro che vivono in situazioni difficili o irregolari (per una trattazione completa cf. il VII cap. [nn. 189-234] del Direttorio di pastorale familiare… della CEI del 1993).
L’atteggiamento della Chiesa italiana si ispira al criterio basilare che guida continuamente la sua azione: si tratta di fare propri i sentimenti di Gesù, buon Pastore, vivendo la carità nella verità. Questo comporta il saper coniugare l’accoglienza e la misericordia con la necessaria chiarezza nei principi.
Come Cristo, la Chiesa si impegna nell’accoglienza e nella misericordia, aiutando le persone a distinguere tra le varie forme di irregolarità matrimoniale e tra i diversi elementi che stanno alla loro origine. In questo modo è possibile giungere ad una migliore valutazione morale della responsabilità delle persone, individuare adeguati interventi (non escluso un prudente aiuto per eventuali casi di nullità) e suggerire concreti cammini di conversione.
Nello stesso tempo però la Chiesa ripropone con chiarezza e fermezza i contenuti ed i principi intangibili del messaggio cristiano.
I. Innanzitutto ribadisce la indissolubilità del matrimonio. Come abbiamo già rilevato, non si tratta di un bene di cui disporre a piacimento, ma di un dono e di una grazia che vanno custoditi ed sviluppati. Non bisogna quindi stancarsi di insegnare che una situazione matrimoniale che non rispetti o rinneghi questo valore costituisce un grave disordine morale.
II. In secondo luogo va riaffermato che anche i cristiani in situazione matrimoniale irregolare appartengono alla Chiesa per il battesimo che hanno ricevuto e per la fede non completamente rinnegata. Tuttavia non sono in “piena” comunione con essa se la loro vita è in contraddizione con il Vangelo di Gesù, che richiede dai cristiani un matrimonio “nel Signore”, indissolubile e fedele.
III. In conseguenza di questa situazione, la Chiesa non può ammettere alla riconciliazione sacramentale ed alla comunione eucaristica quanti continuano a vivere in una condizione di vita in contraddizione con la fede, anche se non si stanca di annunciare il bisogno del pentimento e della conversione, come premessa necessaria per ricevere i sacramenti.

2. Diverse situazioni - Quanto affermato vale propriamente per i divorziati risposati, gli sposati solo civilmente e i conviventi. Possono infatti presentarsi diverse situazioni particolari.

a) Se la persona, per validi motivi (quali gravi difficoltà che rendono praticamente impossibile la convivenza coniugale), è solo separata, senza successivo matrimonio, può accedere ai Sacramenti. Infatti “la separazione degli sposi con la permanenza del vincolo matrimoniale può essere legittima in certi casi contemplati dal Diritto canonico” (C 2383).
Comunque, nella convinzione che il matrimonio comporta convivenza duratura e che la separazione è l’estremo rimedio, la comunità cristiana deve aiutare i coniugi ad evitare il ricorso alla separazione, a coltivare l’esigenza del perdono e la disponibilità ad un’eventuale ripresa della vita comune, ed in ogni caso a vivere cristianamente la loro situazione, in fedeltà al vincolo indissolubile, specialmente nei momenti di difficoltà e di tentazione di passare al divorzio e matrimonio civile.

b) Simile a questo è il caso dei divorziati non risposati. Distinguendo, per quanto possibile, tra chi ha subìto il divorzio, o vi ha fatto ricorso essendovi come costretto per gravi motivi (ad es., la cura dei figli o la tutela del patrimonio) e chi l’ha causato con un comportamento morale scorretto, la Chiesa ricorda che solo per gravissime ragioni si può far ricorso ad esso. In ogni caso esso equivale solamente ad una separazione.
Chi ne è moralmente responsabile, ma non si è risposato, per l’ammissione ai sacramenti, deve pentirsi sinceramente e riparare concretamente il male compiuto; considerarsi veramente legato dal vincolo matrimoniale e vivere separato per motivi moralmente validi.
Al coniuge “innocente” andranno assicurate stima e solidarietà, anche concreta, specialmente in presenza di figli piccoli o comunque minorenni.

c) Più dolorosa è la situazione dei divorziati risposati, che hanno contratto una nuova unione, ovviamente solo civile. Fra di essi si notano atteggiamenti diversi: alcuni si distaccano totalmente dalla Chiesa; altri non sono pienamente coscienti del fatto che la loro nuova unione è contro il Vangelo; altri, pur sapendolo, continuano a loro modo la vita cristiana, manifestando a volte il desiderio di una maggior partecipazione alla vita della Chiesa. Come comportarsi?
Pur astenendosi dal giudicare l’intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica, per la Chiesa la loro situazione è disordinata. Si tratta infatti di una scelta in contrasto con il Vangelo, che richiede il matrimonio unico ed indissolubile. La loro nuova “unione” non può rompere il vincolo coniugale precedente, e si pone in aperta contraddizione con il comandamento di Cristo.
Questo non esclude il dovere di un ponderato discernimento nel valutare le situazioni e le singole persone; l’importanza del dialogo che può illuminare circa la posizione della Chiesa; l’invito ad ascoltare la Parola di Dio, a partecipare agli incontri di catechesi, a perseverare nella preghiera; specialmente a partecipare fedelmente alla Messa; a condurre una vita morale ispirata alla carità; ad impegnarsi per l’educazione dei figli.
Nella fedeltà al Signore, la Chiesa non può però ammettere alla riconciliazione sacramentale ed alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Infatti non può essere celebrato il sacramento della Confessione se manca, per il perdurare di un’unione che non è nel Signore, la volontà di conversione.
Questa richiede non soltanto il pentimento per i peccati, ma anche il proposito di non commetterli più, secondo il chiaro comando di Cristo: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11).
Ma un simile proposito è di fatto assente quando i divorziati risposati continuano a rimanere in una condizione di vita che è contraria alla volontà del Signore. Non è possibile infatti, nello stesso tempo, scegliere l'amore per Dio e la non obbedienza al suo comandamento.
Sostenendoli nel cammino di conversione ed incoraggiandoli a partecipare ai momenti ecclesiali ricordati sopra, non si possono però far accostare ai Sacramenti.
La partecipazione alla vita della Chiesa anche in altri campi rimane condizionata dalla loro non piena appartenenza. Non possono svolgere nella comunità ecclesiale quei servizi che esigono una pienezza di testimonianza cristiana (i servizi liturgici ed in particolare quello di lettori, il ministero di catechista, l’ufficio di padrino per i sacramenti, la partecipazione ai consigli pastorali). Non si possono invece escludere dall'ufficio di testimone nella celebrazione del matrimonio; tuttavia saggezza pastorale chiederebbe di evitarlo.
La riammissione è possibile solo quando i divorziati risposati cessano di essere tali. Essi devono essere sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contrasto con l’indissolubilità del matrimonio, o ritornando, se possibile, all’originaria convivenza matrimoniale, oppure impegnandosi per un tipo di convivenza che contempli l’astensione dagli atti propri dei coniugi.
Infatti, qualora la loro situazione non presenti una concreta reversibilità (per l’età avanzata, o la malattia di uno o di ambedue, la presenza di figli bisognosi di aiuto e di educazione od altri motivi analoghi), la Chiesa li ammette all’assoluzione ed alla Comunione se, sinceramente pentiti, si impegnano ad interrompere la loro reciproca vita sessuale ed a trasformare il loro vincolo in amicizia, stima ed aiuto vicendevoli. In questo caso, possono ricevere l’assoluzione ed accostarsi alla comunione, ma in una chiesa dove non siano conosciuti, per evitare lo scandalo, che potrebbe indurre i fedeli a credere in un cambiamento della fede e della vita della Chiesa.

d) A maggior ragione, tutto questo vale anche per chi convive o ha contratto solo matrimonio civile, perché non si è sposato nel Signore. Essi dovranno celebrare il matrimonio-Sacramento prima di essere ammessi agli altri Sacramenti. Particolare prudenza sarà richiesta nei confronti di coloro che hanno già vissuto in precedenza un’esperienza di matrimonio civile.

3. Difficoltà e “punti fermi” - Si accusa talora di ipocrisia l’atteggiamento della Chiesa, quasi che si riduca tutta la coniugalità alla sessualità genitale o si imponga un impossibile amore senza gesti di amore. In realtà la Chiesa si limita a riconoscere la realtà per quello che è: in alcuni casi esiste una “famiglia”, con i suoi affetti e le sue responsabilità; ma non esiste un matrimonio-Sacramento, e quindi una situazione coniugale che esprima la fedeltà del Cristo sposo alla Chiesa sposa, l’unica situazione che rende legittima nei battezzati una vita coniugale.
Si tratta, infatti, di valutare attentamente l’importanza dei gesti come segni di un effettivo impegno di conversione, e quindi della reale situazione che si vive. Perciò, anche l’atto sessuale deve esprimere la condizione di vita, e la sua astensione riconosce la realtà per quello che è (in questo caso l’assenza di un matrimonio valido per la Chiesa).
A livello teologico si nota però anche come, particolarmente per i divorziati risposati, occorrerebbe pure rilevare che il cammino di conversione comporta una gradualità, per cui si dovrebbero meglio considerare le tappe di un possibile itinerario. In ogni caso, si dovrebbe poter contare su indicazioni orientative della legittima autorità, che per il momento non sono state fornite. Viene invece ribadito l’insegnamento tradizionale. Infatti la Lettera della Congr. per la Dottrina della Fede richiama la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia, affermando come “ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria” (n. 9; EV 14/1463).

3. Problemi di morale sessuale: masturbazione, omosessualità, rapporti pre-matrimoniali

Il piacere sessuale è moralmente disordinato quando è ricercato per se stesso, al di fuori del rapporto coniugale, aperto alle finalità di unione e di procreazione (cf. C 2351).
“Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale, al di fuori dei rapporti coniugali normali, contraddice essenzialmente la sua finalità. A tale uso manca, infatti, la relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, ‘in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana’ [GS 51]. Soltanto a questa relazione regolare dev’esser riservato ogni esercizio deliberato della sessualità” (PH 9: EV 5/1731; EF 1521; cf. C 2352).
In tale disordine rientrano diversi comportamenti, tra i quali la masturbazione, le relazioni omosessuali, i rapporti pre-matrimoniali.

3.1. Masturbazione
Consiste nel darsi il piacere sessuale, attraverso l’eccitazione volontaria degli organi genitali.
Su un piano semplicemente umano e psicologico, è noto che si ricorre alla masturbazione soprattutto nella fase narcisistica dell’adolescenza o in occasione di insuccessi, di sofferenze non accettate, che spingono a chiudersi in se stessi. Quando è praticata dall’adolescente frequentemente riveste più significati: a quello evolutivo-sessuale, espresso anche dalle fantasie coltivate, si accompagna una sorta di “esplorazione” del proprio corpo. Essa però può anche nascondere reazioni difensive, forme di ansietà, solitudine affettiva, ricerca di compensazione, sentimenti di colpa e di disistima di sé, che essa stessa provoca, in una sorta di circolo vizioso assai tenace.
Nell’adulto può essere sintomo di alcune forme di nevrosi e particolarmente di una certa immaturità psicologica.
Tale comportamento lascia frequentemente insoddisfatto chi vi fa ricorso.
Sebbene paia assai frequente nel processo di maturazione dell’individuo od in momenti di frustrazione, non si può però ritenere “normale”, nel senso di corrispondente alla “norma” autentica della sessualità umana. Non si può dunque ritenere necessaria, né semplicemente porre sul medesimo piano di comportamenti involontari che si realizzano durante il sonno. Questo va riaffermato anche di fronte ai risultati di diverse inchieste al proposito (cf. M 250). Infatti
“Le inchieste sociologiche possono indicare la frequenza di questo disordine secondo i luoghi, la popolazione o le circostanze prese in considerazione; si rilevano così dei fatti. Ma i fatti non costituiscono un criterio che permette di giudicare del valore degli atti umani” (PH 9: EV 5/1732; EF 1522).
Per sua stessa natura la masturbazione contraddice il significato cristiano della sessualità vissuta come alleanza d’amore. Non vi si riscontra niente della donazione reciproca e feconda di Cristo e della Chiesa. L’esercizio della facoltà sessuale è privo di ogni rapporto effettivo con un partner, tanto che l’individuo si ripiega su se stesso nella ricerca del proprio piacere.
Oggettivamente dunque la masturbazione rimane un disordine grave. Occorre però anche tener presente che a livello soggettivo, la gravità può essere talora attenuata dalla situazione in cui la persona vive, particolarmente durante l’adolescenza e in fasi depressive.
La responsabilità personale può essere diminuita, oltre che dai fattori consueti, dall’immaturità psicologica, dallo smarrimento interiore, dal peso delle abitudini. La psicologia moderna offre, in questo campo, parecchi dati validi e utili, per formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per orientare l’azione pastorale. Va però ricordato che
“in generale, l’assenza di grave responsabilità non deve essere presunta; ciò significherebbe misconoscere la capacità morale delle persone” (PH 9: EV 5/1733; EF 1523).
La strada per liberarsi e per educare alla genuina libertà in questo campo va individuata nell’operare in senso contrario alla dinamica che conduce a tale comportamento. Se la masturbazione è collegata al ripiegamento su se stessi, si tratta di sviluppare quegli atteggiamenti e comportamenti che distolgono da sé ed aprono a Dio, al prossimo, al mondo, alle proprie responsabilità.
La pastorale è chiamata a scoprire e far emergere le potenzialità della persona, favorendo la tensione verso la crescita. Per questo sarà importante aiutare il soggetto ad uscire dall’isolamento affettivo, rafforzare in lui la stima ed il rispetto di sé e della sua dignità, offrirgli obiettivi positivi di maturazione personale, realisticamente possibili nella sua situazione. Nella consapevolezza che spesso sarà necessario puntare su tempi lunghi, sulla maturazione graduale della personalità morale.
Una vita equilibrata, con adeguato riposo e giusta “coltivazione” dello spirito e del corpo (compresa una certa attività fisica, senza cadere nell’idolatria del corpo o dello sport!), costituisce, come per altri campi della morale, il contesto in cui la persona può crescere nel bene e resistere all’attrazione del male.
Tutto questo senza mettere in dubbio la valutazione morale negativa della masturbazione dal punto di vista oggettivo, ma ricordando che l’aiuto più grande che giunge dalla fede, in questo campo del vissuto etico, consiste non tanto in una migliore definizione del peccato, pure necessaria, quanto nella certezza di un Amore più grande delle nostre fragilità e lentezze e che è anche la vera sorgente del nostro impegno morale e della nostra capacità di crescere nell’amore.
Nei confronti della masturbazione a fini diagnostici e procreativi cf. Donum vitae II,6 (EV 10/1231; EF 1621).

3.2. Omosessualità
Consiste nel comportamento sessuale, provocato da un’attrattiva erotica preferenziale e talvolta esclusiva verso persone dello stesso sesso. Si può parlare di vera omosessualità in presenza di un’attrattiva sessuale verso persone dello stesso sesso e di una repulsione per l’altro sesso con carattere di esclusività e stabilità, che ne fanno una vera struttura psichica, la cui genesi rimane in gran parte inspiegabile (cf. C 2357).
Non si può invece applicare pienamente tale categoria nei confronti di una condotta omosessuale soltanto transitoria che può verificarsi, ad es., in una fase dell’adolescenza o durante fasi di convivenza, prolungata ed assai chiusa, con individui dello stesso sesso.
Si deve distinguere al riguardo la tendenza dalla pratica omosessuale. La tendenza non è il risultato di una scelta, per cui non ha in sé una rilevanza etica in senso proprio. A volte si afferma che si tratta di un’inclinazione “naturale”, intendendo che essa costituisce una modalità della sessualità altrettanto “naturale” quanto l’eterosessualità. La “natura” in questo caso si identificherebbe con le cose così come stanno di fatto.
Dal punto di vista morale tuttavia, non si può accettare una tale lettura: in campo etico, quando si tratta della “natura” o della “legge naturale” non ci si riferisce alle cose come stanno di fatto, ma a come dovrebbero stare per corrispondere alla loro verità profonda (ovvero per essere in linea con il piano, il progetto di Dio). Ora, il “modello” omosessuale non è “naturale”, ordinato in questo senso.
Infatti a livello oggettivo il giudizio sulla pratica omosessuale non può che essere negativo. Il comportamento omosessuale contraddice la struttura dell’amore cristiano. Non riconosce infatti la diversità interiore nella differenza dei sessi ed esclude al tempo stesso la fecondità.
“Secondo l’ordine morale oggettivo, le relazioni omosessuali sono atti privi della loro regola essenziale e indispensabile. Esse sono condannate nella sacra Scrittura come gravi depravazioni e presentate, anzi, come la funesta conseguenza di un rifiuto di Dio” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
Paolo pone in relazione la “scelta” omosessuale con il rifiuto di Dio e l’idolatria:
“Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore… Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento” (Rm 1,24-27).
Sempre Paolo menziona l’omosessualità all’interno di un “catalogo” di vizi che escludono dal Regno (cf. 1 Cor 6,10; 1 Tm 1,10).
Il giudizio della Scrittura non consente certamente di concludere che tutti coloro che vivono tale situazione ne siano personalmente responsabili, ma
“esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
D’altro canto anche sul piano puramente umano e psicologico, va notato come la relazione omosessuale manca di una vera alterità: l’“altro” amato non è veramente tale, poiché appartiene allo stesso sesso; e la relazione non può sfociare - non solo accidentalmente, come talora avviene nel Matrimonio a causa di sterilità, ma per sua stessa natura - nella terza “altra” persona, rappresentata dal figlio.
Occorre però distinguere tra il comportamento omosessuale e la “persona”. Mentre il comportamento non può trovare una giustificazione oggettiva, la persona va sempre accolta con rispetto e con amicizia, specialmente dai fratelli nella fede, tanto più che talora (o spesso?) si tratta di soggetti che soffrono per la loro situazione o per le conseguenze che ne derivano. Perciò
“La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza; ma non può essere usato nessun metodo pastorale che, ritenendo questi atti conformi alla condizione di quelle persone, accordi loro una giustificazione morale” (PH 8: EV 5/1729; EF 1519).
Quanti scoprono in sé una tendenza omosessuale involontaria non devono perciò scoraggiarsi. La tendenza in quanto tale, come dato di fatto involontario, non è peccato. La persona si trova in una situazione che la inclina in direzione disordinata (ovvero non conforme alla “norma” del progetto di Dio, presentato dall’ordine morale), spesso penosa, ma non di per se stessa in colpa.
Sul piano morale la responsabilità è legata all’uso libero, cioè volontario, delle proprie tendenze spontanee, tanto naturali, quanto disordinate. La tendenza involontaria va indirizzata e finalizzata. Basti considerare come ciò debba avvenire anche in altri ambiti: la persona è chiamata ad indirizzare la tendenza, che potrebbe avvertire, al sadismo, all’ira, alla cleptomania…
L’unica proposta autenticamente umana e cristiana per la persona omosessuale è la vita casta, senza rapporti sessuali. Anche persone eterosessuali, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, si trovano a vivere il celibato. La tendenza omosessuale può diventare una delle ragioni per cui un cristiano accetta di vivere nel celibato, per amore di Gesù. Si tratterà comunque di un celibato autentico, vissuto con grande profondità interiore.

3.3. I rapporti pre-matrimoniali
Il Direttorio di pastorale familiare afferma che “Il tempo del fidanzamento non è soltanto un momento di passaggio e di preparazione ad un futuro: è un tempo in se stesso importante. È tempo di crescita, di responsabilità e di grazia” (DPF 41).
a) Tempo di crescita: le persone maturano nella capacità di vivere insieme, “costruiscono” la coppia, si allenano alle fatiche, anche psicologiche, della vita a due; precisano, condividono e consolidano le convinzioni in grado di reggere la convivenza di tutta una vita; si affinano nella conoscenza reciproca. In tal modo, vivono un importante periodo di tirocinio della coppia.
b) Tempo di responsabilità, soprattutto in chiave vocazionale. È una stagione della vita in cui i fidanzati sono tenuti ad interrogarsi sulla loro vocazione al Matrimonio e sulla loro reciproca scelta. La responsabilità si esprime nel dare stabilità alla loro relazione e nel sostenere il fidanzamento con un amore casto: non si tratta più soltanto di una generica amicizia, ma di un cammino verso l’esclusività, che comporta impegni seri e nuovi, anche se non ancora definitivi.
c) Tempo di grazia: il fidanzamento trae forza dal Battesimo e dalla stessa vocazione coniugale che attende di essere concretizzata. È tempo di formazione caratterizzato da una propria spiritualità; è momento privilegiato di crescita nella fede, nella preghiera, nella vita della Chiesa, nella carità.
Quando il rapporto affettivo ha assunto un carattere stabile e maturo e tiene in seria considerazione la prospettiva del matrimonio, le persone avvertono come il loro amore tenda a manifestazioni sempre più impegnative.
Per essere moralmente giuste ed umanamente costruttive, esse dovranno rispettare l’insegnamento tradizionale della morale cristiana, secondo la quale la forma più intensa di unione, il livello più alto dell’intimità, quello dell’unione sessuale, può essere proprio solo dello stato matrimoniale vero e proprio, sancito e reso indissolubile dal sacramento e riconosciuto come tale dalla comunità ecclesiale (e civile). Non sono ammissibili comportamenti che suppongono già quella fusione delle esistenze che è propria solo dei coniugi. In altre parole, due persone diventano “una sola carne” quando sono legate per sempre.
Ogni altra norma riveste un significato prudenziale in rapporto a questa.
I cosiddetti rapporti prematrimoniali si pongono come segno di una realtà che ancora non esiste, poiché non possono esprimere ed attuare una comunione di amore totale, definitivo e pubblicamente riconosciuto, che si realizza solo con il matrimonio. Per i battezzati poi gli stessi rapporti costituiscono l’uso disordinato della sessualità umana: essi non sono e non possono essere un segno vero di quell’amore nuovo che Gesù dona agli sposi con il sacramento del matrimonio; sono piuttosto una sua contraffazione (cf. DPF 47; PH 7: EV 5/1726-1727; EF 1516-1517).
Per molti aspetti la proposta cristiana appare profondamente ragionevole. L’amore impegna a responsabilità sociali e non è autentico se non accetta i vincoli sociali correlativi, espressi nell’istituto del matrimonio.
Per il cristiano, poi, questa dimensione sociale ha un significato particolare: il matrimonio è per lui un sacramento, cioè un evento di salvezza, un incontro con Cristo. Ma tale incontro si attua di fatto nella comunità ecclesiale ed attraverso la mediazione della Chiesa. Il patto coniugale non è solo una formalità giuridica, ma partecipazione all’Alleanza. Tra i due coniugi esiste un legame “in Cristo”: Cristo diviene il senso ultimo ed il sostegno del loro amore umano.
“Prima del matrimonio”, dunque, non significa per il cristiano, prima di un rito o di una certificazione anagrafica, ma “prima del sacramento”, cioè al di fuori della Chiesa, e quindi di Cristo. D’altra parte, è facile supporre che spesso, anche psicologicamente, il rifiuto di un simile impegno renderà l’unione meno espressiva di un amore autentico.
In questo impegno a non vivere l’unione sessuale ed a non porre comportamenti che ad essa si equivalgono, prima del riconoscimento sacramentale dell’amore, sono compresi obblighi e responsabilità diversi. Se infatti per il credente l’amore non è mai completamente se stesso al di fuori del sacramento, esso è molto più infedele alle sue esigenze di autenticità quando impone ad uno dei partner un comportamento che viola le sue aspirazioni e la sua libertà.

3.4. Educarsi ad amare
L’esperienza morale ha sempre l’aspetto di un processo di plasmazione della personalità, è sempre una forma di educazione, un “e-ducere”, cioè far emergere dall’uomo tutte le possibilità di umanità che in esso sono presenti. Realizzando il bene, l’uomo costruisce se stesso in quanto persona. L’esperienza morale ha, dunque, sempre la dimensione di un fatto educativo, in cui il soggetto è insieme educatore ed educando.
Questo è vero in modo particolare per l’etica sessuale, appunto per il carattere evolutivo della sessualità stessa. Tutta la morale sessuale può essere vista in funzione della crescita dell’amore.
Gli istinti ed i sentimenti con cui la sessualità si affaccia alla vita dell’uomo sono orientati all’amore, ma sono pure ambigui, alla ricerca di una fisionomia morale che sarà il soggetto stesso a dare loro.
Tale costruzione si realizza nella libertà. L’uomo porta già in sé certe premesse di riuscita o fallimento, certi condizionamenti positivi o negativi; ma tutto questo resta affidato in misura sempre decisiva alle sue libere scelte. Giunge per tutti il momento in cui ci si impegna nell’orientamento del proprio sviluppo: la riuscita od il fallimento del proprio diventare uomini dipendono da questo.
La castità cristiana è un amore che si realizza, che cresce e si garantisce la sua autenticità, in un processo autoeducativo senza limiti: la castità cristiana è l’educazione dell’amore.
La modalità educativa dell’etica sessuale impone l’adozione del criterio pedagogico fondamentale: il principio di gradualità. A sostenere e stimolare tale crescita nell’amore dev’essere una pedagogia che sappia mediare l’appello morale dei valori, mettendolo in rapporto al livello di maturità raggiunto dall’educando ed al ritmo di crescita che gli è concretamente possibile.
Le norme che rispecchiano l’ordine morale oggettivo - necessariamente espresse in forma assoluta - nella misura in cui sono rivolte ad una persona concreta in una situazione concreta, devono essere interiorizzate ed applicate da questa persona. Senza perdere la loro oggettività, esse diverranno appello concreto per una persona concreta, seguendo le leggi di una morale dinamica ed educativa.
Esse indicano una direzione di marcia. Il vero confine tra il bene e il male passa all’interno di ogni situazione concreta: il bene è davanti a me; il male è appena dietro le possibilità di bene che mi sono offerte. Sono chiamato a superare me stesso, sforzandomi di andare oltre, nella direzione indicata dalla norma. Se questo è vero in ogni campo della morale, lo è particolarmente in campo sessuale, un campo in cui l’uomo sperimenta impegnative difficoltà.
Giovanni Paolo II riconosce che l’uomo “chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene, secondo tappe di crescita”, senza che però la c.d. legge di gradualità si identifichi con la gradualità della legge (cf. FC 34; EV 7/1631-1632; EF 581-582).
Tale realtà può esistere perché si tratta di piani diversi: responsabilità soggettiva e ordine morale oggettivo. La conciliazione di questi due piani si attua nell’impegno morale personale, vissuto come autoeducazione, e nell’azione pastorale della Chiesa esercitata in chiave pedagogica.
La pedagogia ispira un’azione di sostegno e di stimolo, che ha come solo scopo la crescita umana dell’educando. L’insegnamento della Chiesa è al servizio di tale crescita. Lo stesso annuncio della verità oggettiva non è servizio ad una verità astratta, ma alla concreta verità dell’uomo in divenire. Adesione incondizionata alla verità e graduale attuazione di essa nella vita sono momenti ugualmente importanti di questa crescita.
Non si tratta quindi di imporre dall’esterno una soluzione morale “prefabbricata”, ma di aiutare le persone stesse a scoprire le giuste esigenze dell’amore, a partire da una riflessione sulla loro esperienza e nel rispetto della loro coscienza e dei loro ritmi di crescita umana e cristiana, anche se ciò può comportare il pericolo di lentezze e di infedeltà.
Questo - naturalmente - senza rinunciare ad una testimonianza leale della dottrina cristiana in tutto il suo rigore e la sua serietà.
In questa linea andrà valorizzato il carattere educativo delle rinunce. Esse non costituiscono tanto un espediente pastorale al fine di una recezione ed attuazione delle norme morali, quanto un segno di fedeltà alle esigenze dell’amore e degli altri valori o significati della sessualità. La morale cristiana vede nella rinuncia non solo una dura necessità, ma il risvolto della realizzazione positiva dei valori morali.
Inoltre la fede consente di vivere tali rinunce nella luce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo, al quale il credente è stato iniziato nel Battesimo: rinunciare è morire a se stesso per vivere per Dio (cf. Rm 6,1-14; 2Cor 4,10; 5,14-15). Si tratta di sviluppare la sincerità e la libertà interiore dell’adesione al bene. Le rinunce richieste dalla castità sono costruttive nella misura in cui sono interiorizzate e vissute nella luce dei valori che permettono di realizzare. La vera adesione ad un valore può costare, ma produce la serenità e la pace interiore che vengono dal sapere che questo è un valore per la persona.
Preghiera, vigilanza e volontà forte, allenata alle difficoltà, sosterranno la persona nella fedeltà necessaria.

4. Accoglienza della vita: procreazione, fecondazione artificiale, aborto

4.1. Bioetica: scienza del valore della vita
Entriamo ora più specificamente nell’ambito della morale della vita fisica. Esso viene indicato frequentemente anche col termine “bioetica”. Si intende così designare lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali (Warren Thomas Reich). In pratica, la bioetica riguarda i grandi problemi etici inerenti la vita e la sua qualità (aborto, eutanasìa, accanimento terapeutico ecc.). Come formulazione terminologica, la “bioetica” nasce con il volume di V.R. Potter, Bioethics: Bridge to the Future (Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1971).
Numerosi sono i centri ed istituti di ricerca sorti a partire dagli anni Settanta. Nel 1971, ad es., all’interno del Kennedy Institut of Ethics della Georgetown University di Washington (fondata dai Gesuiti nel XVIII sec.) sorge il Center of Bioethics, che nel 1978 pubblica la monumentale Encyclopedia of Bioethics, curata da W.T. Reich. Anche in Italia sorgono centri di ricerca: a Milano il S. Raffaele; a Roma il Centro di Bioetica dell’Università Cattolica; a Padova la Fondaz. Lanza; a Palermo-Acireale l’Ist. Siciliano di Bioetica.
Fondamento ed esigenza primaria dell’ethos sulla vita è costituito dalla sua sacralità ed inviolabilità. La vita è “sacra” poiché vita della persona (in una visione religiosa scaturisce dal Creatore e rimane sempre in relazione speciale con Lui, che si erge a difensore dell’innocente). A tutela della vita sta il comandamento “non uccidere” (Es 20,13; Dt 5,17). Esso, mentre indica il confine estremo che non può mai essere valicato, spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto, promozione ed amore per la vita, divenendo, così, espressione dell’amore del prossimo. Tale comandamento ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente.
La vita innocente va protetta. Infatti il primo diritto di una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni, ed alcuni sono anche più preziosi, ma quello è fondamentale, è la condizione di tutti gli altri. Perciò esso deve essere protetto più di ogni altro. Non spetta alla società, né alla pubblica autorità, qualunque ne sia la forma, riconoscere questo diritto ad alcuni e non ad altri: ogni discriminazione in questo campo è ingiusta. Infatti, “non è il riconoscimento da parte degli altri che costituisce questo diritto; esso esige di essere riconosciuto ed è strettamente ingiusto il rifiutarlo” (De ab. proc. 11; EV 5/672).
La vita conserva il suo valore anche in condizioni di precarietà: essa va rispettata dal suo inizio (la dignità del bambino non ancora nato: cf. profeti, visitazione), sino alla vecchiaia, alla sofferenza, di fronte alla morte (importanza della vita corporale; cf. le guarigioni di Gesù).
Il diritto alla vita inizia con la vita stessa, vita talora ricercata ad ogni costo, talora invece rifiutata.

4.2. Fecondazione artificiale
a. La ricerca di un figlio - La nostra cultura è ricca di contraddizioni che investono anche i figli: per molti la vita è un “rischio” da evitare al punto da ricorrere all’aborto; altri ricercano un figlio a tutti i costi.
Una ricerca che si va facendo sempre più diffusa, anche per l’aggravarsi del fenomeno della sterilità. Il calo demografico dei Paesi occidentali infatti non è dovuto solo a scelte personali. Il tasso di infertilità è in aumento per i fattori più vari: ambientali (urbanizzazione, inquinamento...), soggettivi, patologici. Si possono distinguere fattori “esterni” (cibo, fumo, alcolismo, sedativi, stupefacenti, composti chimici) e “psicologici” (stress, ripercussioni di rapidi cambiamenti, riduzioni di spazi familiari e sociali).
Le conseguenze della sterilità a loro volta sono molteplici: in particolare sono possibili depressione e colpevolizzazione, specialmente nella donna.
Perciò sempre più frequente è il riferimento a soluzioni presentate nei termini più diversi, quali: “fecondazione artificiale”, “riproduzione artificiale”, “procreazione assistita”.
Pur essendo molteplici, le tecniche possono ricondursi a due tipologie di intervento:
- fecondazione in vivo (o intracorporea), quando l’incontro dei gameti e la formazione dello zigote avviene all’interno dell’apparato genitale femminile;
- fecondazione in vitro (o extracorporea) quando la formazione dell’embrione avviene al di fuori dell’apparato genitale, dove poi viene trasferito (embryo-transfer) a vari livelli, in rapporto alla metodica utilizzata.
Queste tecniche possono essere attuate con modalità:
- omologa: quando la fecondazione è frutto di gameti provenienti dai due partners di una coppia;
- eterologa: quando uno dei gameti proviene da soggetto estraneo alla coppia (donatore).

b. Riferimenti morali basilari - Il criterio etico valutativo è segnato dalla originalità del generare umano, che deriva dalla originalità stessa della persona umana. L’atto personale a cui è affidata dalla natura la trasmissione della vita umana è costituito dall’intima unione d’amore degli sposi, i quali donandosi totalmente a vicenda, donano la vita. Si tratta di un unico ed indivisibile atto, insieme unitivo e procreativo.
L’uomo non ha la libertà di disconoscere e disattendere i significati ed i valori intrinseci alla vita umana fin dal suo sorgere: la dignità della persona umana richiede che essa venga all’esistenza come dono di Dio e frutto dell’atto coniugale. La procreazione umana non può essere considerata solo come una conseguenza per così dire fisiologica dell’amore, ma come qualcosa che fa parte della dinamica della donazione sponsale e che partecipa pertanto della doppia dimensione corporea e spirituale delle persone umane.
Ogni mezzo ed intervento medico, nell’ambito della procreazione, deve avere una funzione di assistenza e mai di sostituzione dell’atto coniugale. Ciò è coerente con una adeguata concezione della medicina:
“La biologia e la medicina nelle loro applicazioni concorrono al bene integrale della vita umana quando vengono in aiuto della persona colpita da malattia e infermità nel rispetto della sua dignità di creatura di Dio. Nessun biologo o medico può ragionevolmente pretendere, in forza della sua competenza scientifica, di decidere dell’origine e del destino degli uomini. Questa norma si deve applicare in maniera particolare nell’ambito della sessualità e della procreazione, dove l’uomo e la donna pongono in atto i valori fondamentali dell’amore e della vita” (DnV Intr. 3: EV 10/1164; EF 1554).
Sono questi valori e significati di ordine personale a determinare dal punto di vista morale il senso e i limiti degli interventi artificiali sulla procreazione e sull’origine della vita umana:
“Questi interventi non sono da rifiutare in quanto artificiali. Come tali essi testimoniano le possibilità dell’arte medica, ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la vocazione divina al dono dell’amore e al dono della vita” (DnV Intr. 3: EV 10/1165; EF 1555).
Se vuole essere ordinata al bene della persona, la medicina deve rispettare i valori specificamente umani della sessualità: Il medico è al servizio delle persone e della procreazione umana: non ha facoltà di disporre o decidere di esse. L’intervento medico è rispettoso della dignità delle persone quando si propone di aiutare l’atto coniugale. Quando invece l’intervento medico tecnicamente si sostituisce all’atto coniugale, non risulta più, come dovrebbe, al servizio dell’unione coniugale, ma si appropria della funzione procreatrice e così contraddice alla dignità e ai diritti inalienabili degli sposi e del nascituro (cf. DnV II,7; EV 10/1233-1234; EF 1623-1624).
Infatti, “l’origine di una persona umana è in realtà il risultato di una donazione. Il concepito dovrà essere il frutto dell’amore dei suoi genitori. Non può essere voluto né concepito come il prodotto di un intervento di tecniche mediche e biologiche: ciò equivarrebbe a ridurlo a diventare l’oggetto di una tecnologia scientifica. Nessuno può sottoporre la venuta al mondo di un bambino a delle condizioni di efficienza tecnica valutabili secondo parametri di controllo e di dominio” (DnV II,4; EV 10/1219; EF 1609).
Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono, il “dono più grande”. Non esiste un “diritto al figlio”; solo il figlio ha veri diritti: di essere il frutto dell’atto di amore dei suoi genitori, di essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento (cf. C 2378).

c. Alcune tecniche

1. Inseminazione artificiale
- Eterologa (con donatore), con eventuale ricorso alle cd. “banche dello sperma” - È inaccettabile e perché disgiunge nettamente momento unitivo e procreativo, e perché ci si troverebbe di fronte ad una duplice paternità: ogni bambino ha diritto di nascere dai suoi genitori.
- Omologa (all’interno della coppia) - È accettabile se facilita l’atto naturale, e non lo sostituisce (si parla talora, in tal caso, di “inseminazione artificiale impropriamente detta”). Il problema è anche quello della raccolta del seme, che non può essere eticamente ottenuto tramite la masturbazione:
“La masturbazione, mediante la quale viene normalmente procurato lo sperma, è un altro segno di tale dissociazione [tra i due significati dell’atto coniugale]; anche quando è posto in vista della procreazione, il gesto rimane privo del suo significato unitivo” (DnV II,6: EV 10/1231; EF 1621).

2. GIFT (Gamets Intra Fallopian Transfer)
L’espressione (che significa “dono” in inglese) indica una tecnica americana che consiste nel prelievo degli ovociti, la loro collocazione in siringa accanto al seme maschile (ma tenuti separati da una bolla d’aria), indi la loro iniettazione nell’ampolla tubarica, dove avviene la fecondazione. È utile nei casi di sterilità inspiegata o di ridotta fertilità del coniuge.
Illecita in modalità eterologa, la sua liceità nel caso di uso omologa è oggetto di discussione.

3. FIVET (Fecondazione In Vitro con Embryo Transfer):
Consiste in una serie di interventi che vanno dalla raccolta di ovuli maturi mediante laparoscopia, alla cultura in vitro e fecondazione con spermatozoi debitamente preparati. Segue il trasferimento degli embrioni così ottenuti in utero, destinando al congelamento od alla morte gli embrioni “sovrannumerari”. Numerosi sono gli aspetti problematici. Infatti i vari passaggi della metodica sono tutt’altro che scontati e “naturali”; alta è la percentuale di fallimenti (aborti). Eticamente si distingue:
I. FIVET eterologa - È gravata della negatività etica di un concepimento dissociato dal matrimonio. Il ricorso a gameti di persone estranee agli sposi contrasta con l’unità del matrimonio e la fedeltà degli sposi e lede il diritto del figlio ad essere concepito e venire alla luce nel matrimonio e dal matrimonio; “opera e manifesta una rottura fra parentalità genetica, parentalità gestazionale e responsabilità educativa” che si ripercuote anche nella società civile (DnV II,2: EV 10/1208; EF 1598).
II. FIVET omologa - Pur non essendo “gravata di tutta quella negatività etica che si riscontra nella procreazione extraconiugale” (DnV II,5: EV 10/1227; EF 1617), è “attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento”. Così essa “affida la vita e l’identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana” (DnV II,5: EV 10/1224; EF 1614).
Oltre queste ragioni intrinseche alla dignità della persona e del suo concepimento, concorrono circostanze e conseguenze negative relative al modo in cui è praticata oggi:
- Essa, infatti, è ottenuta al prezzo di numerose perdite embrionali, che praticamente sono aborti procurati.
La fecondazione in vitro “ancora oggi, presuppone abitualmente una iperovulazione della donna: più ovuli sono prelevati, fecondati e poi coltivati in vitro per alcuni giorni. Abitualmente non sono trasferiti tutti nelle vie genitali della donna... Fra gli embrioni impiantati talora alcuni sono sacrificati per diverse ragioni eugenetiche, economiche o psicologiche”: (DnV II: EV 10/1198; EF 1588). Si tratta della cd “riduzione embrionale”.
- Può comportare, inoltre, il congelamento (= sospensione della vita) degli embrioni cosiddetti “soprannumerari” e spesso anche la loro distruzione:
“Nella pratica abituale della fecondazione in vitro non tutti gli embrioni vengono trasferiti nel corpo della donna; alcuni vengono distrutti. Così come condanna l’aborto procurato, la chiesa proibisce anche di attentare alla vita di questi esseri umani... Agendo in tal modo il ricercatore si sostituisce a Dio e, anche se non ne ha la coscienza, si fa padrone del destino altrui, in quanto sceglie arbitrariamente chi far vivere e chi mandare a morte e sopprime esseri umani senza difesa” (DnV I,5: EV 10/1192; EF 1582).
- Inaccettabile è l’inseminazione post mortem, cioè con seme, depositato in vita, del coniuge defunto.
III. Maternità sostitutiva - Impiantare nell’utero di una donna un embrione che le è geneticamente estraneo o anche solo fecondarla con l’impegno di consegnare il nascituro a un committente, significa dissociare la gestazione dalla maternità, riducendola ad una incubazione irrispettosa della dignità e del diritto del figlio ad essere “concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori” (DnV II,3: EV 10/1211; EF 1601).
IV. Moralmente riprovevoli sono anche tentativi o progetti di fecondazione tra gameti umani e animali, di gestazione di embrioni umani in uteri animali, di riproduzione asessuale di esseri umani mediante fissione gemellare, clonazione... Sulla clonazione vedi più oltre.

Conclusione - La Chiesa non chiude alla ricerca tecnica ed all’approfondimento delle motivazioni, da cui potranno derivare ulteriori precisazioni e convincenti argomentazioni.
Il problema di fondo comune alle varie tecniche sembra essere quello del figlio “ad ogni costo”, dimenticando come il figlio sia un dono e non può mai essere trasformato in oggetto di proprietà (cf. GS 50). Si fa strada una logica insieme “individualistica” (sentimento) ed “attualistica” (senza attenzione al futuro ed al sociale), che sconfina poi nella “logica della produzione”.
I criteri per una valutazione faranno riferimento a 3 princìpi:
- coniugalità: le finalità intrinseche della sessualità non possono essere conseguite adeguatamente senza una unione stabile e fedele della coppia;
- “naturalità”: l’atto coniugale dev’essere insieme unitivo ed aperto alla vita;
- rispetto della vita nascente.

4.3. Aborto
L’inviolabilità della persona umana dal momento del concepimento proibisce l’aborto come soppressione della vita prenatale.
L’aborto procurato, al dire del Concilio, è un “abominevole delitto” (cf. GS 51: EV 1/1483; EF 23). La percezione della sua gravità, nella coscienza di molti, è andata progressivamente oscurandosi, ma “occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno” (EvV 58: EV 14/2362; EF 1305): non vi sono ragioni, per quanto gravi e drammatiche, che possono giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente!
Molteplici e diverse sono le responsabilità e le complicità, al punto che oggi “ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una ‘struttura di peccato’ contro la vita umana non ancora nata” (EvV 59: EV 14/2366; EF 1309).
La S. Scrittura non parla mai di aborto volontario, tuttavia essa mostra una tale considerazione dell’essere umano nel grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento: “Non uccidere” (Es 20,13; Dt 5,17).
La vita umana è sacra ed inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita. Fin dal grembo materno l’uomo appartiene a Dio, che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani:
“Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre... Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra” (Sal 138 [139] 13.15). “Prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (Ger 1,5).
Luca nell’episodio della Visitazione presenta Giovanni che, nel seno di Elisabetta, avverte la venuta di Gesù, portato da Maria (“Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”: Lc 1,44).
La tradizione della Chiesa ha sempre ritenuto che la vita umana deve essere protetta e favorita fin dal suo inizio, come nelle diverse tappe del suo sviluppo.
Tertulliano (160-220ca) afferma: “È già uomo colui che lo sarà [Homo est et qui est futurus]” (Apologeticum 9,8; cit. in De ab. proc. 6; EV 5/667).
Nel corso della storia l’insegnamento ecclesiale si mantiene costante. Le diverse opinioni circa il momento dell’infusione dell’anima spirituale non portano a dubbi sull’illegittimità dell’aborto, ma ad una differenza nella valutazione del peccato e nella gravità delle sanzioni penali.
In tempi recenti alcuni han cercato di giustificare la soppressione dell’embrione introducendo divisioni di tempo o di “natura”.
L’esempio più famoso è offerto dal Comitato Warnock (1984) che, nominato dal governo inglese per esaminare il problema della fecondazione in vitro e dell’embrione umano, giunse a conclusioni contraddittorie. Da un lato riconosceva che “da un punto di vista biologico non si può identificare un singolo stadio nello sviluppo dell’embrione, al di là del quale l’embrione in vitro non dovrebbe essere mantenuto in vita”. D’altro canto, “al fine di tranquillizzare la pubblica ansietà” [!], raccomandava, in base alla maggioranza dei membri, che la legislazione disponesse “che la ricerca possa essere condotta su ogni embrione risultante dalla fertilizzazione in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine del quattordicesimo giorno dalla fecondazione, ma soggetta a tutte le alte restrizioni imposte dal Comitato di autorizzazione” (cap. 11 del Rapporto finale; in A. Serra, L’embrione umano “cumulo di cellule” o “individuo umano”?, CivCatt 152 [2001] I, 348-362; 349-350). Una tale “indicazione” fu accolta a livello legislativo, e non solo in Gran Bretagna.
A seguito dell’embriologa A. McLaren, alcuni denominano “pre-embrione” il frutto del concepimento sino al termine dello stadio di impianto (ca 14 giorni dopo l’ovulazione), riservando il termine “embrione” alla fase successiva che si distingue per lo stadio di stria primitiva.
In sé il termine “pre-embrione” potrebbe anche prestarsi ad una benevola interpretazione linguistica, quale sostitutivo di “embrione precoce” o di “embrione pre-impianto”. Esso non è però accettabile se con esso si intende in sostanza “un insieme di cellule che non è il vero individuo umano”.
Ma già i dati semplicemente biologici smentiscono tale interpretazione. Infatti con la fecondazione inizia un nuovo ciclo vitale, che prosegue ininterrottamente: siamo di fronte ad un “soggetto” che si “autocostruisce” secondo quel programma iscritto nel proprio genoma. Si sviluppa ciò che è già dato nel primo momento. Già nello zigote (one-cell embryo: la cellula derivante dalla fusione dei nuclei dei due gameti) è costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano (cf. DnV I,1: EV 10/1177; EF 1566). Lo zigote si sviluppa poi in blastociste, in disco embrionale, in feto.
Il processo embrionale si presenta come uno sviluppo coordinato, continuo e graduale. Siamo di fronte ad una ininterrotta e progressiva “evoluzione” di un ben determinato individuo umano, secondo un piano rigorosamente definito. Si tratta dello stesso soggetto che si costruisce autonomamente, passando attraverso stadi qualitativamente sempre più complessi, sviluppando quel nuovo progetto e programma (inscritti nel proprio DNA), che esso porta in sé dalla sua origine.
Tenendo presente lo sviluppo continuo che caratterizza la nuova vita, non si potrà dunque parlare nei primi momenti di vita semplicemente di un “cumulo di cellule” o di un “grappolo” di cellule individuali distinte (cf. N. Ford). Tantomeno si può considerare l’inizio dell’individuo umano all’apparire della “stria embrionale primitiva” (15°-16° giorno) e parlare in termini di “pre-embrione” dell’“essere” precedente. Tale “stria embrionale” rappresenta solo il punto di arrivo di un processo ordinato, senza soluzione di continuità, che è iniziato dal momento della fecondazione. In ogni momento dello sviluppo si tratta di un essere unitario.
Così pure, non contraddice il discorso il fatto della gemellanza, per cui nei primi 10-15 giorni possono prendere origine dallo stesso embrione (o, forse più propriamente, “zigote”) anche più embrioni. In questo fenomeno avviene il distacco di una o più cellule dotate ancora di totipotenzialità, cioè non ancora differenziate: si tratta di cellule germinali che, formate dallo zigote primitivo, possiedono un programma definito di sviluppo e, determinando l’origine di un altro individuo, nulla tolgono al primitivo (cf. in natura il caso del batterio).
Né può essere accettata l’opinione che, per essere davvero umano, un individuo deve venire riconosciuto come uomo da chi lo genera e lo introduce in relazioni personali, o accettato come tale dalla società. Non si può poi confondere “identità” ed “autonomia”, capacità di scelta.
L’unica conclusione possibile perciò è che l’embrione va considerato “individuo umano” fin dal primo istante del concepimento: “Dal momento in cui l’ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire” (De ab. proc. 12-13: EV 5/673-674; cit. in EvV 60: EF 1310).
In ultima analisi, “le conclusioni della scienza sull’embrione umano forniscono un’indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?” (DnV I,1: EV 10/1177; EF 1567; cf. EvV 60: EV 14/2367-2368; EF 1310).
Il Magistero non si è espressamente impegnato su un’affermazione d’indole filosofica relativamente al concetto di persona, ma sostiene che al di là dei dibattiti scientifici e filosofici, “l’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento” (DnV I,1: EV 10/1178; cit. in EvV 60: EV 14/2368; EF 1311).
Inoltre va anche ricordato come non spetta alle scienze biologiche dare un giudizio decisivo su questioni propriamente filosofiche e morali, come quella del momento in cui si costituisce la persona umana. Dal punto di vista morale, anche se esistesse un dubbio concernente il fatto che il frutto del concepimento sia già una persona umana, è oggettivamente un grave peccato osare di assumere il rischio di un omicidio (cf. De ab. proc. 13: EV 5/674; EvV 60: EV 14/2368; EF 1311).
La condanna morale di qualsiasi aborto procurato costituisce dunque un insegnamento che “non è mutato ed è immutabile” (DnV I,1: EV 10/1177; EF 1567; cf. EvV 60: EV 14/2367-2368; EF 1311).
Il rispetto alla vita umana si impone perciò fin da quando ha inizio il processo della generazione.
In alcuni casi, rifiutando l’aborto, si reca pregiudizio a beni anche importanti, che è normale voler salvaguardare (ad es., salute della madre, aggravio di un figlio in più, grave malformazione fetale, gravidanza originata da violenza sessuale). Queste difficoltà e le ragioni che le sorreggono non si possono disconoscere o minimizzare. Si deve però affermare anche che nessuna di esse può conferire oggettivamente il diritto di disporre della vita altrui, anche se in fase iniziale: “la vita, infatti, è un bene troppo fondamentale perché possa essere posta a confronto con certi inconvenienti, benché gravissimi” (De ab. proc. 14; EV 5/675).
La valutazione morale dell’aborto viene applicata ad altre nuove forme di interventi sugli embrioni umani che ne comportano l’uccisione.

5. Genetica e rispetto dell’embrione:
diagnostica pre-natale, clonazione, cellule staminali

5.1. Il “nuovo mondo” della genetica
La biologia moderna ha contribuito a mutare profondamente la nostra immagine del mondo, specialmente con i contributi della genetica, la branca che studia le modalità di trasmissione dei caratteri ereditari da individui di una generazione ai discendenti.
Per comprendere i risvolti etici sono anzitutto necessarie alcune nozioni basilari.
L’organismo umano è composto di cellule (ca 75.000 miliardi in una persona adulta). Ogni cellula comprende al suo interno il nucleo, che contiene i cromosomi (46 nelle cellule somatiche; 23 in quelle germinali, riproduttive - spermatozoo ed ovulo - che, fondendosi, possono formare uno zigote umano di 46 cromosomi).
I cromosomi contengono le informazioni che dirigono la crescita delle cellule, la loro differenziazione e strutturazione. Ogni cromosoma è formato da due sottilissimi filamenti di acido desossiribonucleico (DNA) avvolti a spirale, collegati tra loro da quattro basi (Adenina, Timina, Guanina, Citosina), che si dispongono in diverse “sequenze”. Nel DNA (la cui struttura fu scoperta da J. Watson e F. Crick nel 1953) è inscritta la programmazione che dirige lo sviluppo di tutto il corpo umano. Ogni essere vivente è dotato del proprio DNA, ma la diversa quantità e disposizione delle sequenze dà origine a quella varietà di geni che costituisce la differenza tra i viventi.
Il gene è un segmento di DNA che “ordina” la costruzione di una determinata proteina. Il complesso dei geni forma il genoma. In ogni cellula si trovano tutti i geni, cioè l’intero genoma umano. Ogni cellula però utilizza soltanto una minima parte del genoma, cioè il gene che le serve per produrre le “proprie” proteine.
Il numero dei geni che costituiscono il genoma umano è ormai noto e molto inferiore alle stime precedenti. Sino a non molto tempo fa si riteneva infatti che i geni della nostra specie fossero circa 100.000 mentre oggi sappiamo che essi si aggirano intorno ai 30-40.000 (31.780, secondo i dati raccolti dal Progetto Genoma Umano, e circa 37 mila secondo quelli della Celera: cf. Repubblica.it 11/2/2001). Il numero è ancora un po’ impreciso, ed è legato a valutazioni attendibili ma ancora aperte a una valutazione finale.
I dati della genetica raccontano una storia complessa: ci parlano di una somiglianza tra i viventi, di una peculiarità umana che dipende da pochi geni e di una caratteristica tipica della nostra specie, quella di una grande omogeneità biologica alla base della “essenza” umana.

5.2. Biotecnologie (manipolazione genetica)
Le nuove conoscenze hanno aperto la strada a nuove tecnologie, grazie alle quali i geni sono isolati, esaminati, moltiplicati, inseriti in cellule (cf. la tecnica del DNA ricombinante che fa uso degli enzimi di restrizione). Il discorso non riguarda dunque solo la conoscenza, ma il suo utilizzo.
a) Così, nell’ambito dei microrganismi gli sviluppi sono notevoli. Nel campo alimentare si producono nuovi tipi di lieviti e di fermenti; nel settore dei medicinali si realizzano nuovi antibiotici, vitamine, vaccini... (cf. l’insulina).... Si delineano tuttavia all’orizzonte anche pericoli, quali il modificare, danneggiandolo, l’ambiente vitale dell’uomo, ed il generare specie patogene, in grado di diffondere malattie.
b) Nel mondo vegetale grande sviluppo ha conosciuto l’ambito delle ibridazioni interspecifiche (soia, mais, cotone, colza…). Tuttavia, non sempre il gene “trapiantato” si è comportato nell’organismo nel modo atteso.
c) Riguardo agli animali emergono difficoltà ancora più evidenti. Se infatti si riescono a “produrre” animali con le caratteristiche desiderate (sviluppo maggiore e più rapido, miglior rapporto carne-grasso...), tuttavia essi soffrono anche di disturbi congeniti.
d) L’ingegneria genetica rivolta direttamente all’uomo conosce in sostanza queste applicazioni:
- studio e conoscenza di caratteri individuali e di gruppi: analisi del DNA per l’accertamento della paternità..., diagnosi prenatale di malattie genetiche...
- terapia per via somatica (che lascia inalterato il patrimonio genetico del soggetto trattato).
- Sono ipotizzabili infine interventi a livello delle cellule germinali per eliminare il pericolo di trasmissione nei discendenti di una persona sofferente di male genetico. Su questa linea ci si può spingere fino ad operare la clonazione umana: più individui aventi lo stesso patrimonio genetico.
La conoscenza sempre più estesa del genoma umano con la possibilità di trasferire, modificare o sostituire i geni, apre dunque inedite prospettive e contemporaneamente pone problemi etici.

5.3. Conoscenza
I progressi della genetica trovano la loro applicazione in campo diagnostico. La diagnosi prenatale, ad es., può far conoscere le condizioni dell’embrione e del feto quando è ancora nel seno della madre; permette, o consente di prevedere, alcuni interventi terapeutici, medici o chirurgici, più precocemente e più efficacemente. Occorre, però, considerare le indicazioni che la rendono giustificabile ed il fattore rischio, che concerne la vita e l’integrità fisica del concepito, e solo in parte della madre, relativamente alle diverse tecniche diagnostiche ed alle percentuali di pericolo che ciascuna presenta (secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica 1992: rischio di aborto 1% per l’amniocentesi; 1-3% per la biopsia dei villi coriali; funicolocentesi 2%; possibilità di “falsi positivi”: cf. C. Bresciani [ed.], Genetica e medicina predittiva: verso un nuovo modello di medicina?, Giuffrè, Milano 2000, 138). Così pure non si deve utilizzare la diagnosi per individuare malattie che “giustifichino” la soppressione del nascituro.
Il numero dei disordini genetici diagnosticabili cresce continuamente (uno dei più evidenti è il mongolismo, o trisomia 21 o sindrome di Down). Solo in piccola parte è possibile attualmente una terapia od una parziale attenuazione degli effetti di malattie ereditarie.
Un grande numero di malattie d’origine genetica pongono invece la medicina di fronte ad ostacoli insormontabili (ad es. la miopatia e le aberrazioni cromosomiche: cf. Comm. Nat. Suisse Justice et Paix, Éthique chrétienne et médecine moderne. Points de repères sur des problèmes actuels, Labor et Fides, Genève 1999, 44-45).
Si tratta allora di rispondere con onestà alla domanda: conoscere per curare o per “selezionare”? (cf. S. Spinsanti, Dottore mio figlio sarà sano? Diagnostica prenatale e consulenza genetica, S. Paolo, Cinisello B. [MI] 2002). Un discorso simile va fatto anche nei confronti di analisi di un adulto tramite le quali si diagnostica il rischio di una malattia. Tali informazioni potrebbero essere fonte di discriminazione (cf. assicurazioni, datori di lavoro).

5.4. Intervento
Per quanto concerne l’intervento si deve distinguere la manipolazione terapeutica da quella alterativa.
- La manipolazione strettamente terapeutica si pone come obiettivo la cura di malattie dovute ad anomalie geniche o cromosomiche (terapia o “chirurgia” genica). L’intervento sarà considerato in linea di principio auspicabile, purché tenda alla vera promozione del benessere personale dell’uomo, senza intaccare la sua integrità o deteriorare le sue condizioni di vita.
Si tratta di riportare le cellule malate ad una attività normale mediante l’inserimento in esse di geni sani capaci di sostituire quello alterato (operazione detta di “transfezione”). Gli esperimenti condotti inducono ad un cauto ottimismo, ma bisognoso di verifica a lungo termine Le ricerche infatti hanno concorso a migliorare la diagnosi e la comprensione delle malattie, ma i risultati sono difficilmente constatabili (cf. A. Bompiani - E. Brovedani - C. Cirotto, Nuova genetica nuove responsabilità, S. Paolo, Cinisello B. [MI] 1997, 30-31).
Fra le malattie trattate dalla terapia genica somatica con qualche successo, anche se ancora in via sperimentale, vi è, ad es., la deficienza di adenosina deaminasi (Ada; che origina un’immuno-deficienza congenita combinata grave), ma molte altre malattie sono candidate ad essere trattate. Fra queste non vi sono solo quelle la cui causa è unicamente o parzialmente genetica (come la fibrosi cistica o l’ipercolesterolemia famigliare), ma anche quelle di origine non genetica, che possono essere curate per mezzo di una modificazione del patrimonio genetico del paziente (come nel caso dell’AIDS o di alcune forme di tumore: cf. E. Lecaldano [ed.], Dizionario di bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, 297).
Non bisogna però coltivare illusioni premature: c’è addirittura chi afferma che i primi risultati significativi richiederanno almeno cinquant’anni (D 47). Tuttavia, nonostante le attuali difficoltà, la terapia genica sul lungo periodo ha ancora le sue carte da giocare.
La manipolazione di cellule somatiche umane per fini curativi (così come di cellule animali o vegetali per fini farmaceutici) non solleva questioni morali.
In ogni caso, non si deve pregiudicare l’origine della vita umana, cioè la procreazione legata all’unione non solamente biologica, ma anche spirituale dei genitori. Resta perciò esclusa la terapia genica germinale, che richiede, oltretutto, una sperimentazione, non possibile sull’uomo per il notevole rischio di errori e che potrebbe portare ad alterazioni intenzionali del genoma umano, con mire eugenetiche.
- Ci colleghiamo in tal caso alla manipolazione alterativa del patrimonio genetico umano, che comprende interventi non propriamente curativi, miranti alla “produzione” di esseri umani selezionati secondo il sesso od altre qualità prestabilite, comunque alterativi del corredo genico dell'individuo e della specie umana. Essi sono contrari alla dignità personale dell’essere umano, alla sua integrità e alla sua identità. Non possono quindi in alcun modo essere giustificati, nemmeno in vista di eventuali conseguenze benefiche per l’umanità futura (cf. DnV I,6: EV 10/1196; EF 1586).
Anche il Consiglio d’Europa ha affermato che i diritti alla vita e alla dignità dell’uomo “implicano il diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione” (Raccomandazione 934 sull’ingegneria genetica [1982] 4,I, in T 602).

5.5. Clonazione
Con tale termine (dal greco klon = germoglio) si indica la produzione artificiale ed asessuata di cellule o individui geneticamente identici ad altri già esistenti. Secondo il fine, si distinguono due tipi di clonazione: riproduttiva e terapeutica.
- La riproduttiva ha come scopo di ottenere la nascita di un nuovo essere vivente uguale a quello clonato.
- La terapeutica ha lo scopo di “produrre” un embrione, che sarà soppresso nei primi stadi dello sviluppo, per ricavarne cellule e tessuti da trapiantare nel paziente, affinché possano sostituirsi a quelle malate.
Vi sono differenti metodi di clonazione. Il più noto (che dovrebbe essere più propriamente chiamato trasferimento nucleare), è quello utilizzato per ottenere nel 1996 (dopo 277 tentativi, di cui solo 8 hanno iniziato lo sviluppo embrionale e di cui solo uno è giunto alla nascita) la famosa pecora Dolly e successivamente un numero ormai notevole di altri mammiferi, dai topi ai bovini. Con questa tecnica si preleva il nucleo di una cellula somatica dell’individuo, si introduce in una cellula-uovo privata del suo proprio nucleo e la cellula risultante si trasferisce in utero (nel caso di Dolly l’ovulo e l’incubazione erano però di una pecora di razza diversa). Il nucleo della cellula somatica inserito nell’ovulo diventa totipotente (perde le differenziazioni) e si sviluppa dando origine ad un individuo geneticamente uguale al primo.
Recentemente (28/12/2002) è stata diffusa la notizia della “produzione”, tramite un esperimento di clonazione riproduttiva, di un essere umano, nella fattispecie una bambina, Eva. In questo caso si sarebbe prelevato il nucleo di una cellula della pelle di una donna, lo si sarebbe introdotto in una cellula-uovo privata del suo proprio nucleo e la cellula risultante sarebbe stata poi fatta crescere fino a dar vita a una bambina di tre chili.
Dal punto di vista scientifico, tutto ciò non pare impossibile (cf. E. Boncinelli, “Corriere della Sera” 28/12/2002). Il procedimento è già stato realizzato diverse volte con altri mammiferi e quindi anche con l’uomo potrebbe essere efficace. Ma proprio gli esperimenti fatti in questi anni su vari animali portano a considerare una nutrita serie di obiezioni tecniche (numero di tentativi necessario; numero di donne coinvolte; stato della bambina; quali probabilità di sviluppare disturbi più o meno seri nei prossimi anni…). In assenza di tali dati, si è indotti a credere che la notizia non sia fondata e se lo è, non si può non essere seriamente preoccupati per la salute della neonata.
Dal punto di vista morale, la clonazione riproduttiva animale è lecita se finalizzata a ricerche scientifiche utili all’uomo, ad es. nel campo dell’alimentazione, della salute… Va regolata per conservare la biodiversità, per evitare pericoli all’uomo, e per non cadere in uno sfruttamento scientifico e commerciale incontrollato.
La clonazione riproduttiva umana invece è sempre gravemente illecita. Tre sono i criteri antropologico-etici su cui si basa questo giudizio:
a. L’identità individuale di ogni persona - La clonazione è una violazione di tale identità tanto a livello biologico, quanto psicologico. Biologico, poiché è lesivo della dignità dell’uomo il dominio da parte di altri sulla propria costituzione genetica (il genoma non è più “unico”, ma è programmato, in base a scelte precise e selettive). A livello psicologico, poiché nell’identità personale è coinvolto tutto il mondo della personalità e delle capacità psichiche. Basti pensare alla sofferenza del “clonato” che avverte di non essere voluto in sé (come ogni figlio dovrebbe essere), ma in quanto “copia” di un altro, del quale gli sono state “imposte” le qualità, almeno biologiche.
b. L’indisponibilità della persona ad essere usata come mezzo - Ultimamente il clone è voluto da qualcuno che si arroga il diritto di disporre dell’identità di altri uomini, in vista del conseguimento di fini diversi dalla persona stessa (quale il soddisfacimento di desideri specifici del/i “genitore/i”).
c. La natura della sessualità e della procreazione umana - Nella clonazione si avrebbe una procreazione senza sessualità, con la chiara separazione fra le due realtà ed una rottura radicale dei legami di parentela (padre-madre-figlio-fratello…).

5.6. Clonazione terapeutica
Ha lo scopo di “produrre” cellule e tessuti da trapiantare nel paziente, affinché possano sostituirsi a quelle malate. Tali cellule-tessuti sono prodotte a partire dalle cellule staminali. Su di esse verte quindi il discorso.
Le cellule staminali (dall’ingl. stem = tronco) sono cellule non ancora differenziate in tipi specifici di tessuto (sangue, ossa, muscoli…), che possono dare origine ad altre cellule differenziate dell’organismo, in modo da sostituire quelle malate. Possono essere di due tipi:
- cellule staminali embrionali (Embryo Stem Cells = ES, Esc), che formano l’embrione nelle sue primissime fasi di sviluppo, sino allo stadio di blastocisto.
- cellule staminali in organismo già formato, dette anche, forse meno propriamente, cellule staminali dell’adulto (Adult Stem Cells = ASC). Esse sono presenti, ad es., nel cordone ombelicale e nella placenta al momento della nascita (P/CB = placental/Cord blood); ma anche nell’adulto in diversi centri, come il midollo osseo (HSCs), il cervello (NSCs), il mesenchima (MSCs) di vari organi. In anni recenti le staminali provenienti da adulti stanno dimostrando una capacità di proliferazione e di specializzazione mai sospettata finora dalla scienza. Sono stati ottenute molte cellule staminali a partire da poche cellule staminali provenienti da adulti o anche dal cordone ombelicale o dalla placenta al momento della nascita (cf. l’utilizzo delle cellule staminali da adulti nel trattamento di leucemie, linfomi, mielomi…: R. Colombo, Cellule staminali umane da embrioni e da organismi adulti. I - Aspetti scientifici e clinici; II - Aspetti antropologici e morali, OR 11-12/9/2000, 10; OR 16/9/2000, 9).
Interessante notare come il feto invii delle proprie cellule staminali alla madre, che vanno a collocarsi nei tessuti della donna danneggiati da una patologia, per ristrutturarli e rigenerarli. Queste cellule si trovano nella madre anche per molti anni dopo la gravidanza (cf. Prof. Salvatore Mancuso, Dir. dell’Istituto di Ostetricia e Ginecologia dell’Univ. Cattolica di Roma, Congresso nov. 1991).
Il problema etico riguarda l’origine delle cellule. L’uso delle cellule staminali in organismo già formato (impropriamente dette staminali adulte) non presenta difficoltà etiche: esso è lecito in quanto tali cellule sono prelevate senza danno per i soggetti interessati.
Per le cellule staminali embrionali, il problema è assai serio, poiché il loro uso comporta una lesione irreparabile dell’embrione nei primi stadi del suo sviluppo, che viene così soppresso. Esse infatti si possono ottenere dall’embrione nelle sue primissime fasi di sviluppo, con l’ablazione della massa cellulare interna (ICM) della blastociste, che lede gravemente e irreparabilmente l’embrione, troncandone così lo sviluppo.
Pertanto, come nota la Pont. Academia pro Vita, non è moralmente lecito produrre e/o utilizzare embrioni umani viventi per la preparazione di cellule staminali embrionali. Non si può infatti sopprimere l’embrione umano vivente che “sulla base di una completa analisi biologica” è, a partire dalla fusione dei gameti, “un soggetto umano con una ben definita identità, il quale incomincia da quel punto il suo proprio coordinato, continuo e graduale sviluppo, tale che in nessuno stadio ulteriore può essere considerato come un semplice accumulo di cellule” (PCS 469).
Ogni essere umano ha diritto alla vita e nessun fine, anche se buono (come l’utilizzazione delle cellule in vista di procedimenti terapeutici) può giustificare la sua uccisione.
La via più ragionevole ed umana da percorrere per un corretto e valido progresso in questo campo nuovo che si apre alla ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche consiste dunque nella ricerca sulle cellule staminali adulte, anche se si richiedono molti ulteriori passi prima di vedere risultati chiari e definitivi.

6. Salute e malattia. Diritti del paziente. Donazione e trapianto di organi

6.1. Salute: diritto e dovere
a. Cos’è la salute? - Come afferma la Carta Costituzionale (22/7/1946) dell’Organizzaz. Mondiale della Sanità (OMS), istituzione specializzata dell’ONU con sede a Ginevra, la salute non è solo assenza di malattia, ma “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Una tale illustrazione per un verso è positiva, ma presenta anche aspetti discutibili.
È positiva in quanto assume un concetto di salute in prospettiva globale, cui corrisponde un ampio concetto dell’attività sanitaria, che non si limita a curare chi è già malato, ma si apre alla triplice dimensione: preventiva, curativa, riabilitativa.
L’aspetto discutibile emerge dal fatto che la salute è presentata come “stato” (in senso piuttosto astratto, astorico, impersonale) e non tanto come “tensione”, da misurarsi con la situazione del soggetto concreto, storico, nel suo ambiente reale.
L’attività sanitaria è infatti in relazione alla persona concreta, nella totalità delle sue potenzialità, esigenze e condizionamenti biologici, psichici, spirituali e sociali. Ne consegue il superamento di una mentalità organicistica, che riduceva la malattia a disfunzione organica, e di una prospettiva organico-psichica che prescinda da esigenze ed eventuali disturbi “spirituali”.
Per “disturbi spirituali” intendiamo le tensioni conseguenti a crisi di valori, ad inquietudini di coscienza, a caduta di ideali, a crisi di fede. Ogni disturbo spirituale può riflettersi in disturbo psichico e può avere riflessi nella funzionalità organica, data la fondamentale unità dell'individuo, fatto di un tessuto insieme organico, psichico, spirituale.
La salute può dunque definirsi piuttosto come: tensione dell’uomo ad un benessere bio-psichico-spirituale e ambientale che favorisca una realizzazione “umana” dell’esistenza nella situazione in cui si trova.
Questa definizione “antropologica” della salute considerata nella totalità dell’uomo specifica e qualifica la finalità sanitaria, che non è mai priva di significato anche presso il morente; è sempre aiuto all’uomo in questa lotta di vita; è aiuto per una dignità o qualità di vita a misura d’uomo.
Non dimenticando la dimensione sociale, poiché “la salute di tutti i popoli è condizione fondamentale per la pace nel mondo e per la sicurezza” (costituzione dell’OMS).

b. Valore - Poiché la persona è un valore e la persona è “corpo-spirito”, anche la salute è un valore, dovere e diritto di ciascuno.
- Il dovere della salute - Ogni persona deve salvaguardare ed accrescere, se possibile, la propria e l’altrui salute. Non deve perciò attentare alla propria salute con fumo, droghe, cattive abitudini (alimentari, sessuali), imprudenza nella guida automobilistica, stress psico-fisico per eccesso di lavoro, sports pericolosi, rifiuto di cure; né nuocere alla salute degli altri sia direttamente (es.: percosse), sia indirettamente (es.: rumori, inquinamento). La natura va infatti rispettata come normale ambiente di vita dalla cui integrità dipende la salute dell’umanità.
Non va omesso il dovere di contribuire, anche finanziariamente, da parte di tutti, all’assistenza sanitaria. L’evasione fiscale, pertanto, è fortemente immorale, perché mina alla radice il concetto di “società solidale”. Tutti devono collaborare, ciascuno secondo le proprie responsabilità, affinché tutti ricevano adeguata assistenza.
Particolarmente delicato è il caso del rifiuto di cure, che può avvenire per diversi motivi, dalla radicata avversione agli interventi, alla diffidenza verso la tecnologia sanitaria, a motivi ideologici (sciopero della fame, rifiuto di trasfusioni: Testimoni di Geova…). Come principio generale è importante rispettare la coscienza di tutti. Si potrà intervenire forzatamente solo nel caso di perdita di coscienza o di pericolo immediato e certo di vita per il bene del malato.
- Il diritto alla salute - Tenendo conto della visione globale, la salute è uno dei diritti fondamentali, assicurato da numerose “carte”. Ad es.:
Dichiaraz. univ. dei diritti dell’uomo art. 25, § 1: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”.
Cost. It. art. 32, § 1: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Intesa nel senso globale di qualità della vita, rientra tra i diritti fondamentali della persona. Non basta, cioè, vivere più a lungo; occorre anche vivere un’esistenza il più possibile sana, dignitosa, felice. Fa parte, quindi, del diritto alla salute: la prevenzione delle malattie; la sanità dell’ambiente naturale e degli ambienti “artificiali” di vita (casa, ufficio, scuola…); l’educazione sanitaria; la cura della malattia. Pertanto
- La società ha il dovere di provvedere, di assicurare a tutti i membri un’assistenza sanitaria efficiente ed accessibile. Per società intendiamo tutti coloro che in qualche modo sono coinvolti: politici, contribuenti, operatori. In particolare, chi lavora nelle strutture sanitarie ai vari livelli ha un grave dovere morale di farle funzionare in modo corretto, in vista della salute dei cittadini.
- L’assistenza di base, perché si rivolge a tutti, deve venir privilegiata, sia come strutture che come impiego di personale. Quella specializzata, pur importante, è di supporto alla precedente.
- Il volontariato può svolgere un ruolo importante per quei settori nei quali l’assistenza pubblica o privata è assente. Esso però dovrà costituire uno stimolo per le istituzioni, e non un pretesto per il disimpegno. La sua originalità non è la supplenza (benché a volte necessaria), ma la flessibilità e la perspicacia nella scoperta delle situazioni di bisogno, insieme a quella umanità nei rapporti, che nasce direttamente dal “cuore” più che dal “mestiere”. Le strutture sono inevitabilmente rigide e burocratiche; il volontariato può dire una parola diversa, in riferimento, ad es., ai malati di AIDS, tossicodipendenza, anziani, stranieri...

c. Malattia e malati - In correlazione con la concezione di salute, si può distinguere tra:
- malattia come carenza di salute nel senso corrente; malattia in senso clinico e usuale: ogni compromissione, di una certa entità, dell’integrità o efficienza fisica e/o psichica; e
- malattia della persona: l’incapacità o l’insufficiente capacità di utilizzare tutte le facoltà ed energie che si possiedono in ogni situazione, anche difficile e dolorosa. Tale incapacità si abbina e spesso si fonda su un’assente, od almeno insufficiente, percezione del significato e valore della propria sofferenza.
Anche occupandosi della malattia “clinica”, secondo il linguaggio comune, va mantenuta la consapevolezza delle profonde connessioni con la “malattia della persona”. Del resto è “la persona come tale che, nel corpo, è colpita dal male. La malattia e la sofferenza, infatti, non sono esperienze che riguardano soltanto il sostrato fisico dell’uomo, ma l’uomo nella sua interezza e nella sua unità somatico-spirituale” (Lett. ap. motu proprio Dolentium hominum, che istituisce la Pont. Commiss. per la pastorale degli operatori sanitari, 11/2/1985; n. 2: EV 9/1410-1418, 1411).
Gesù si è mostrato particolarmente attento ai malati. “Medico della carne e dello spirito”, con le numerose guarigioni mostra l’amore del Padre ed indica la venuta del Regno (cf. Mt 11,2-6: “Sei tu colui che deve venire…? Andate e riferite…”). I discepoli a loro volta sono mandati a compiere una missione in cui l’annuncio del Vangelo si accompagna alla guarigione dei malati (cf. Mt 10,7-8; Mc 16,16-18; EvV 47: EV 14/2322; EF 1265).
Nella Chiesa è coltivata in modo particolare la pastorale degli infermi e degli operatori sanitari. Quanto ai diritti del paziente (cf. le numerose le carte dei diritti del malato), vanno particolarmente affermati:
a) il diritto a non essere discriminato nell’accesso ai mezzi della salute;
b) il diritto ad essere informato sulle sue reali condizioni. Dovrà trattarsi di un’informazione possibilmente esauriente e comprensibile; che tenga conto della situazione reale della persona; che sia proposta nei momenti e modi opportuni; coinvolgendo i familiari. Nella consapevolezza che, nel caso di prognosi infausta, si tratta di un problema complesso che non ammette soluzioni del tutto semplici;
c) il diritto a dare/rifiutare il proprio consenso per le procedure diagnostiche o terapeutiche.

6.2. Donazione e trapianto di organi
1. Motivazioni - Dal punto di vista morale, in primo luogo è importante soffermarsi sulle motivazioni. Esistono infatti ancora molte resistenze alla prassi dei trapianti sia per quanto riguarda il giudizio di valore (coscienza), sia per i regolamenti giuridici. Tenendo presente che spesso le leggi seguono le convinzioni della pubblica opinione.
a. Garantire la vita - Si tratta di salvaguardare la sua essenzialità, anche col sacrificio di qualche componente corporea della stessa persona, o di qualche altra persona vivente, o addirittura col sacrificio di un essere inferiore. Con il trapianto da persona morta si “sostiene” la vita anche oltre la morte: attraverso l’organo donato, si attua una specie di prolungamento di una vita che viene meno in un’altra la quale, senza quel dono, cesserebbe, o sarebbe notevolmente diminuita nelle sue potenzialità. Questo in una sorta di profezia, che afferma fiducia, speranza, gratuità, che ama la propria vita per amarla in tutti.
b. Realizzare solidarietà - Ogni uomo, in certo senso, forma un tutt’uno con qualsiasi altro uomo: la socialità, comunitarietà, relazionalità... è essenziale perché una persona sia autenticamente tale. Questo si verifica anche laddove manca la conoscenza diretta personale. Con il trapianto si vive una gratuità che giunge ad uno scambio/comunione anche nella fisicità organica.
c. Vivere concretamente la carità (l’amore cristiano) - Per il cristiano il trapianto è una realizzazione degli insegnamenti di Gesù:
Gv 15,12-13: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Mt 25,40: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”.
Il cristiano sa di partecipare all’esperienza di Cristo, che ha offerto la sua vita per la salvezza di tutti; ed è consapevole di avere in sé la forza dello Spirito santo per esprimere energie sconosciute di generosità, per “un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (cf. Ez 36,26).
Alle condizioni che saranno tra breve esposte, il dono gratuito ed il trapianto di organi è conforme alla legge morale e può essere meritorio (cf. C 2296; 2301). Anzi, tra i gesti di condivisione che nutrono un’autentica cultura della vita “merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza” (EvV 86: EV 14/2451; EF 1394).

2. Tipi di trapianti
a) Autoplastici: l’espianto ed il reimpianto avvengono sulla stessa persona. Essi sono legittimati dal principio di totalità, in virtù del quale è possibile disporre di una parte per il bene integrale dell’organismo.

b) Omoplastici: il prelievo è operato su individuo della stessa specie del ricettore. Sono legittimati dal principio di solidarietà che unisce gli esseri umani e dalla carità che dispone al dono verso i fratelli sofferenti. Il prelievo degli organi può avvenire da donatore vivo o cadavere:

1. donazione da vivo - È legittima a condizione che si tratti di organi il cui espianto non implica una grave e irreparabile menomazione per il donatore: una persona può donare soltanto ciò di cui può privarsi senza un serio pericolo per la propria vita o identità personale, e per una giusta e proporzionata ragione. I danni ed i rischi fisici e psichici in cui incorre il donatore devono essere proporzionati al bene che si cerca per il destinatario. È perciò moralmente inammissibile provocare direttamente la mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia pure per ritardare il decesso di altre persone (cf. C 2296).

2. donazione da cadavere - Questo non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perché è privo della personalità, che sola può essere soggetto di diritto (famoso il primo trapianto di cuore realizzato nel 1967 da Christian Barnard a Città del Capo). 2.1. Il prelievo è lecito, perciò, solo a seguito di una diagnosi di morte certa del donatore: per questo è necessario l’accertamento della morte cerebrale del donatore, che consiste nella cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale. Quando la morte cerebrale totale è constatata con certezza, cioè dopo le dovute verifiche, è lecito procedere al prelievo degli organi, come anche surrogare artificialmente delle funzioni organiche per conservare vitali gli organi in vista di un trapianto.
Anche secondo la legge del Parlamento italiano n. 578 (29/12/1993), la morte è identificata con “la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Per l’accertamento deve essere compiuto un doppio elettroencefalogramma piatto, a distanza di sei ore l’uno dall’altro.
Dal trapianto vanno, comunque, esclusi l’encefalo e le gonadi, che assicurano l’identità, rispettivamente personale e procreativa, della persona: si tratta di organi in cui prende specificamente corpo l’unicità inconfondibile della persona, che la medicina è tenuta a tutelare.
2.2. Occorre anche garantire rispetto e pietà delle spoglie mortali del donatore: anche se esse non sono identificabili con una persona viva, è pur vero che ne acquisiscono dignità per essere state componenti della dimensione corporea, necessaria e fondamentale per ogni espressione della persona stessa.
2.3. Nell’ambito di tale rispetto va richiesto il consenso libero del donatore prima di morire (ad es., attraverso l’iscrizione ad apposite associazioni) o dei suoi aventi diritto. Il trapianto presuppone infatti una decisione libera e consapevole da parte del donatore o di qualcuno che legittimamente lo rappresenti, solitamente i parenti più stretti. Questo per esprimere il carattere oblativo della donazione.

Deve, tuttavia, prevalere la cultura della donazione sul culto del cadavere. È importante lavorare perché l’opinione pubblica diventi sempre più sensibile al problema dei trapianti, per la formazione di una mentalità solidaristica. E questo a cominciare dai giovanissimi, specialmente attraverso l’opera di sensibilizzazione di apposite associazioni di donatori. Si tratta di attuare una dinamica culturale/operativa che sia efficace, che susciti decisioni responsabili e risultati concreti.
Una presenza solidaristica di questo tipo contribuisce a dare consistente fiducia agli ammalati, ed anche ai loro familiari, creando intorno a loro un interesse ed un’attenzione concreta ed effettiva, contribuendo a toglierli dalla solitudine e dalla disperazione.
Contribuisce inoltre ad approfondire il senso della vita, che va oltre la morte; e della solidarietà, che va oltre la reciproca diretta conoscenza, per una dimensione planetaria dei rapporti interpersonali.
Cf. per l’Italia la Legge 1/4/1999, n. 91: Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti, (Gazzetta Ufficiale n. 87 del 15/4/1999).

c) Trapianti eterologi: con organi di individuo di specie diversa dal ricevente. Si deve distinguere secondo i casi.
Nel caso di trapianti da animali, va osservato come non si tratterebbe di offesa all’animale dovendo esso servire all’uomo, purché non sia sottoposto a sofferenze ingiustificate. Inoltre l’intervento dovrebbe corrispondere ad una vera necessità del paziente, in mancanza di organi umani o artificiali, con previsione di esito positivo (considerando pericoli di rigetto, di trasmissione di agenti infettivi, di alterazione della personalità…). Famoso è stato il caso di Baby Fae, la bambina cui fu trapiantato nel 1984 un cuore di babbuino, ma che sopravvisse per poco tempo. I trapianti di cellule fetali animali in pazienti diabetici hanno dato recentemente buoni risultati (Le 330). Attualmente si sta lavorando sul trapianto da maiali a primati non umani, con aiuto dell’ingegneria genetica. Gli esperimenti non sono tuttavia ancora soddisfacenti (cf. Pont. Academia pro Vita, La prospettiva degli xenotrapianti. Aspetti scientifici e considerazioni etiche, suppl. OR 26/9/2001).
Per quanto concerne gli innesti di organi artificiali, la liceità è condizionata dall’effettivo beneficio per la persona e dal rispetto della sua dignità.

7. Al termine della vita:
eutanasia, accanimento terapeutico e cura del malato terminale

7.1. Di fronte alla morte
a. L’enigma della morte - “Come sono effimere tutte le cose composte! È loro natura il nascere e il morire; venendo, esse se ne vanno; e giungono al meglio quando ciascuna incomincia a cessare e tutto è riposo!” (preghiera buddista sul defunto, prima di essere tumulato, riportata in Olem Rac, Il prodigo seminatore, EMI, Bologna 1986, 278).
La morte rappresenta senza dubbio il fatto più misterioso, di fronte al quale “l’enigma della condizione umana diventa sommo” (GS 18; EV 1/1371), sia per il pensiero dell’approssimarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, quanto per il timore che tutto finisca per sempre.
Le diverse culture hanno espresso diverse posizioni sul senso della morte: alcune relativizzandola, altre drammatizzandola, altre ancora rimuovendola.
Specie quest’ultimo è un modo di pensare culturalmente debole, ma assai diffuso e dannoso, perché toglie verità e validità ai problemi importanti, emargina le persone sofferenti, rende sguarniti di fronte alla propria sofferenza-morte ed a quella delle persone amate con conseguenze devastanti.
L’ethos dell’uomo contemporaneo nei confronti della morte pare costruito intorno ai due punti del controllo di essa e della soppressione del dolore, compreso il dolore morale di rendersi conto di star morendo. Tale antropologia ha eliminato due dimensioni assai valorizzate in passato in ambito cristiano:
- la morte come “pathos”, una passività di valore positivo, come occasione della crescita umana suprema;
- il dolore come prova, che acquista significato attraverso la simbolizzazione (croce) e l’etica (accettazione).
Gli eccessi di queste posizioni (provvidenzialismo e dolorismo) andavano corretti, senza tuttavia disperdere i valori sottesi. Riproporre tali valori appare come il compito profetico dell'etica cristiana adatta al nostro tempo.

b. La morte del cristiano - Anche il cristiano può provare la ripugnanza “naturale” verso la morte, ma “l’istinto del cuore”, “il germe dell’eternità che porta in sé” insorge giustamente contro la morte (GS 18; EV 1/1371). Egli sa che
“Cristo è risorto dai morti,/ con la sua morte calpestando la morte
e ai morti nei sepolcri donando la vita” (Liturgia bizantina, Tropario di Pasqua).
La certezza dell’immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire ed infondono nel credente forza per affidarsi a Dio:
“Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8).
Il cristiano sa che per risuscitare con Cristo, bisogna morire con lui. Perciò si prepara, riflette sulla morte:
“In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani?” (Imitazione di Cristo 1,23,1).
Si può giungere a chiamare la morte “sorella”:
“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,/ da la quale nullu homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;/ beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,/ ka la morte secunda nol farà male” (s. Francesco, Cantico delle creature; FF 263).

c. Vivere la morte - È importante vivere il più degnamente possibile non solo il corso della propria esistenza, ma anche vivere bene il momento della morte. Momento che rischia di diventare di grande difficoltà per atteggiamenti quali: solitudine, ribellione, risentimento, tentativi di patteggiamenti, depressione, abbandono ad un senso di perdita, smarrimento di significato.
Fortunatamente esiste pure l’atteggiamento dell’accettazione, con cui si riesce a cogliere i valori di questo evento naturale che - in un’autentica considerazione umana e cristiana - costituisce il passaggio ad una vita che non ha fine.
Oggi l’esperienza del morire è forse più difficile che in altri tempi. Non solo per quella illusione di onnipotenza esistente nella cultura dominante, ma anche per le concrete circostanze in cui ci si trova a morire. Non più in famiglia, ma di solito in ospedale, nella solitudine, senza la comunicazione che potrebbe sottrarre ai pericoli delle reazioni negative sopra accennate.
La morte dev’esser vissuta con dignità umana: accettando la propria sorte e rimanendo - per quanto è nelle forze umane - consapevoli, col diritto di essere informati sulla propria situazione. Evitando, da parte di chi assiste, gli errori opposti di un silenzio evasivo o di una informazione violenta, bensì trovando il modo di stabilire col paziente una relazione tale che quest’ultimo divenga lui stesso capace di chiedere informazioni sul suo stato e di trarne le conseguenze necessarie. Dignità anche nel senso che devono essere evitati situazioni e trattamenti troppo dolorosi e magari umilianti ed inutili.
La morte va vissuta anche in dimensione cristiana: credendo nel Dio che accoglie chi si affida a lui e confidando nella sua misericordia. Per questo è importante che il cristiano possa ricevere, nella sua malattia ed anche nella sua agonia, il conforto dei Sacramenti, che riconciliano e rafforzano il morente nella prova finale.

7.2. La morte inflitta
Parlare in questi termini significa riferirsi innanzitutto all’omicidio volontario. Nella cultura corrente, almeno occidentale, è presente una mentalità favorevole a comportamenti “omicidi”, quali ad es., aborto, eutanasìa, suicidio. Nel contempo tuttavia sembra vada aumentando nell’opinione pubblica mondiale la reazione a certe forme di intervento, più o meno motivate anche dalla tradizione cristiana, quali la pena di morte e la cd “guerra giusta”, a favore della non-violenza.
Del resto, il comandamento “non uccidere”, mentre indica il confine estremo che non può mai essere valicato, spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto, promozione ed amore per la vita, divenendo, così, espressione dell’amore del prossimo. Tale comandamento, afferma Giovanni Paolo II, ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente:
“Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2,14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale” (EvV 57: EV 14/2359; EF 1302).
La legittima difesa e la pena di morte richiedono quindi precisazioni, coinvolgendo persone “colpevoli”.

a - La legittima difesa anche attraverso la violenza è stata frequentemente giustificata col principio del duplice effetto: dal gesto di difesa derivano tanto la conservazione della propria vita (effetto buono), quanto il ferimento o - in caso estremo - l’uccisione dell’attentatore (effetto cattivo non direttamente voluto). Ci si è richiamati pure all’amore verso se stessi, amore “naturale” e richiesto quale termine di confronto dall’amore del prossimo (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”: Mc 12,31).
Il cristiano potrebbe anche rinunciare al diritto di difendersi, non certo per uno scarso amore alla propria esistenza, ma per un amore “eroico” che si rifa al Vangelo (cf. Mt 5,38-48) ed alla donazione radicale di cui è esempio sublime Gesù stesso.
Tuttavia, la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia e della comunità civile (cf. C 2265; EvV 55: EV 14/2352; EF 1295).
Pur non rifiutando dunque il principio della legittima difesa, la Chiesa è però andata progressivamente sempre più restringendone le ipotesi di possibili applicazioni, anche “sociali”. Questo appare specialmente nelle considerazioni sulla cd. guerra giusta (cf. il discorso in moale sociale).

b - Quanto alla pena di morte si registra, tanto nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede o un’applicazione assai limitata o, assai diffusamente, una totale abolizione. Anche negli orientamenti ecclesiali si constatano notevoli novità. A questo riguardo l’Evangelium Vitae si colloca sulla linea della pratica inapplicabilità di tale pena.
Per ogni pena - qualunque essa sia - si richiede infatti una attenta valutazione e decisione sulla sua misura e qualità, se si vuole che essa possa conseguire le proprie finalità (riconosciute nella riparazione del disordine introdotto dalla colpa; nella difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza delle persone; e nello stimolo ed aiuto al colpevole per correggersi e redimersi).
Non si deve perciò “giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (EvV 56; EV 14/2354; EF 1297).
Di fatto, perciò, la pena di morte sembra inapplicabile. È difficile infatti oggi immaginare che non esistano mezzi incruenti per conseguire con più efficacia e con più rispetto della dignità umana gli scopi della pena. La moderna società dispone senz’altro di strumenti che, mentre rendono inoffensivo il colpevole, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi.
Inoltre, in ogni caso, si deve tener presente anche la possibilità di errori - ed errori irreparabili! - che si possono compiere applicando la pena di morte ad innocenti: questo contrasta fortemente con il concetto della giustizia, che non deve mai correre il rischio di uccidere un innocente.
Il problema va perciò inquadrato nell’ottica di una giustizia penale sempre più conforme alla dignità dell’uomo e pertanto, in ultima analisi, al disegno di Dio sull’uomo e sulla società. L’attuale sensibilità etica, almeno nella Chiesa, corrisponde senza dubbio meglio alle richieste del Discorso della Montagna ed al messaggio complessivo della Bibbia che è un forte appello al rispetto dell’inviolabilità della vita fisica e dell’integrità personale.

c - La non violenza - La riflessione teologica recente sottolinea sempre più il primato della radicalità evangelica (“Non uccidere”) in materia di difesa della vita. Primato che porta a valorizzare la non violenza attiva, e quindi il rispetto dell’esistenza umana, tanto innocente quanto colpevole.
In effetti, il nucleo profondo del Cristianesimo, il messaggio del Vangelo va distinto dai rivestimenti culturali, forse legittimi, ma che non ne condividono lo stesso peso e valore. Il Vangelo stimola ad atteggiamenti nuovi fondati sulla pace, la giustizia e la non violenza attiva.
Anche in situazioni di forte conflittualità sarà necessaria una valutazione molto rigorosa della situazione, tenendo conto del continuo sviluppo delle tecniche impiegate e della crescente gravità dei pericoli implicati nel ricorso alla violenza (cf. Congr. per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione, 22/3/1986, n. 79; EV 10/307). Anche la violenza con cui si reagisce ad altra violenza può risultare un principio di autodistruzione che, lungi dal guarire, aumenta il male.

7.3. Il suicidio
Se l’esistenza fisica - anche da un punto di vista puramente umano - rappresenta un bene, un presupposto indispensabile per ogni altro discorso sulla persona; e se l’uomo è immagine di Dio, il suicidio è chiaramente illecito. Esso nega la “responsabilità” fondamentale, che è garanzia di ogni altro valore. È un atto gravemente immorale perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme. Nel suo nucleo più profondo costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte.
È un gesto così radicalmente negativo e così contrario alle dinamiche esistenziali che, senza negare a priori ogni responsabilità morale, si può immaginare che spesso gravi disturbi psichici, l’angoscia od il timore grave della prova e della sofferenza possono attenuare la responsabilità del suicida.
Oggi siamo chiamati a riflettere particolarmente
- da una parte sull’aumento del suicidio tra i giovani, e persino tra bambini,
- e dall’altra sulla lettura ideologica di alcuni tipi di suicidio, visti come espressione di protesta politica e sociale, e quindi di amore di patria, di libertà o di giustizia.
Si va dunque estendendo il fenomeno dell’incapacità di percepire un significato valido nell’esistenza e di dare un senso a situazioni troppo penose. L’auto-soppressione non è forse l’estremo tentativo di dare un significato umano ad una vita umanamente senza senso?
In particolare, i suicidi “per una causa” politica, sociale ecc. non assolutizzano forse una causa, dei programmi, delle strategie... in veri e propri “idoli”, ai quali si deve sacrificare tutto, compresa la vita? La vita propria ed altrui non viene ridotta a semplice mezzo? Non tenendo anche conto come la violenza risulti un metodo controproducente anche per la difesa dei propri diritti.
I suicidi giovanili poi non rimandano come causa profonda al disagio di fronte alla vita? Alla loro base stanno: carenza di prospettive per il futuro; solitudine; noia esistenziale; difficoltà di comunicazione e rapporti umani; cultura della superficialità che relativizza tutti i valori; sottrazione all’esperienza del “mistero” più profondo di sé, e specialmente della presenza di Dio-Amore.
Le occasioni prossime possono essere le più diverse: delusione amorosa, bocciatura, fatica della vita ordinaria... Il tutto non può essere astratto dal contesto sociale. Sono chiamate così in causa la famiglia e soprattutto la cultura dominante che offre ai giovani concezioni distorte della libertà e pone obiettivi alienanti: individualismo esasperato, carrierismo, ricchezza...
Strettamente collegati al tema del suicidio sono l’utilizzo di droghe e l’abuso di alcol: si tratta di veri fenomeni di autodistruzione, di “forme sociali di suicidio” (cf. tabagismo e psicofarmaci).

7.4. Eutanasia e cura del malato terminale
a. La malattia inguaribile sfida alla medicina - I problemi etici non si concentrano solo sul momento della morte, ma anche su tutto il periodo che la precede. Se non si acquisisce il senso della “vita da vivere” fino all’ultimo istante, che conserva in tutte le sue fasi una qualità umana, l’etica si rivela impotente a frenare la spinta verso soluzioni di tipo eutanasico. Anzi, senza un progresso significativo nella gestione della vita terminale, l’eutanasia rischia di apparire a molti come la sola azione umana di fronte ad una situazione intollerabile.
La medicina è chiamata a riscoprire una funzione che ha svolto nel passato, quando le sue capacità terapeutiche erano molto ridotte: non solo alleviare i sintomi, ma anche accompagnare verso la morte il malato che non può guarire.
Per designare questo aspetto dell’azione sanitaria si parla oggi di “medicina palliativa”. Non si tratta di una medicina parallela rispetto a quella curativa: è l’unica ed identica medicina, in quanto commisura le sue cure alla situazione clinica ed umana di un malato che sta andando inevitabilmente verso la fine della vita. La medicina per chi muore pone l’accento sul “prendersi cura”, sul rendere umanamente accettabile l’ultimo segmento della vita.

b. Eutanasia (= “morte dolce” o “buona morte”) - È necessaria innanzitutto una chiarificazione terminologica: in senso vero e proprio essa va distinta dalla rinuncia all’accanimento terapeutico e dal ricorso alle cure palliative. L’eutanasia consiste in “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (EvV 65: EV 14/2384; EF 1327; cf. S. Congr. per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5/5/1980 [IeB II]: EV 7/355).
Le modalità con cui si opera l’intervento non modificano il contenuto specifico. La stessa terminologia può indurre confusione: si può infatti parlare di:
- eutanasia attiva (meno propriamente: “diretta”) quando c’è somministrazione o iniezione di sostanze tossiche in dosi mortali o ricorso a strumenti di varia natura;
- eutanasia passiva (“indiretta”) quando c’è omissione di soccorso, sospensione di terapie ordinarie e certamente utili.
L’eutanasia si situa dunque al livello delle intenzioni e dei metodi usati.
Il giudizio morale non può che essere totalmente ed inequivocabilmente negativo: esso dipende dal fatto che una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio (magari anche “assistito”: cf. EvV 66: EV 14/2389; EF 1332) o dell’omicidio (cf. EvV 66. 72: EV 14/2390. 2410; EF 1333-1352), che sono gravemente inaccettabili sotto il profilo morale.
L’inviolabilità della vita umana implica l’illiceità di ogni atto direttamente soppressivo: infatti “l’inviolabilità del diritto alla vita dell’essere umano innocente ‘dal momento del concepimento alla morte’ è un segno e un’esigenza dell’inviolabilità stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita” (DnV Intr. 4; EV 10/1167; EF 1557). Nessuna autorità può legittimamente imporre né permettere un gesto omicida. Esso costituisce infatti una violazione della legge divina, un’offesa alla dignità della persona umana, un crimine contro la vita, un attentato contro l’umanità” (IeB II; EV 7/356).
Anche se la responsabilità soggettiva, personale può risultare diminuita in base alle circostanze, non può cambiare l’oggettiva gravità, che è data dalla precisa intenzione di uccidere e dall’uso di mezzi atti a far morire. E questo a prescindere dai motivi con cui verrebbe giustificato il ricorso: egoismo; motivi economici; “senso del dovere” da parte di certi medici; “pietà”.
A questo riguardo “l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza” (EvV 66: EV 14/2389; EF 1332).
Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno è l’amore, il calore umano e spirituale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini: parenti, amici, medici, infermieri (cf. IeB II; EV 7/357).
Alla base dell’accettazione dell’eutanasia è una concezione della vita totalmente secolarizzata ed egoisticamente individualistica. La vita ha valore solo se in buona salute, senza menomazioni, “efficiente”. Mentre invece la persona è l’unica creatura voluta da Dio per se stessa. Come tale, essa vale sempre.
Se già a livello razionale si può percepire come nessuno può disporre di un potere assoluto sull’esistenza umana, a maggior ragione ciò è affermato dalle grandi religioni, e particolarmente dalla Rivelazione biblica.
Rimane senza dubbio il mistero del dolore e della sofferenza, che pone alla ragione umana notevoli difficoltà, soprattutto nel caso dei malati terminali. A questo riguardo la componente di fede può risultare determinante: la Rivelazione presenta Dio “compagno di viaggio” dell’uomo, proprio a partire dalla sofferenza. Paolo vive la sua sofferenza in spirito di solidarietà: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Il personale medico e paramedico - fedele al compito di essere sempre al servizio della vita ed assisterla sino alla fine - non può prestarsi a nessuna pratica eutanasica, neppure su richiesta dell'interessato, tanto meno dei suoi congiunti.
Diverso è il caso del diritto a morire con dignità umana e cristiana: questo è un diritto reale e legittimo, che il personale sanitario è chiamato a salvaguardare, curando il morente ed accettando il naturale compimento della vita. C’è radicale differenza fra “dare la morte” e “consentire il morire”.

c. Accanimento terapeutico - Pur consapevoli dell’ambiguità delle terminologie, possiamo definirlo come quell’insieme di iniziative clinico-assistenziali di carattere piuttosto eccezionale attuate su un malato terminale allo scopo di rallentare l’avvicinarsi della fine, pur sapendo che ormai tali iniziative non costituiscono più delle vere e proprie terapie.
Si può parlare di “accanimento”, anziché di “doveroso comportamento di assistenza” perché il malato chiede (avendone diritto/dovere) una giusta terapia: alimentazione, trasfusioni, iniezioni...; affidandosi alla medicina, affinché lo porti a vivere un’esistenza più serena. Se però i trattamenti particolari risultano inattivi e inutili, anzi dannosi, il malato può chiedere legittimamente la sospensione di un trattamento che non è più terapìa.
Si tratta, evidentemente, di operare una valutazione complessiva del suo maggiore interesse vitale, di “mantenere il senso della misura di fronte alle risorse tecniche, di non agire in maniera irragionevole, di comportarsi secondo prudenza” (P. Cons. “Cor Unum”, Doc. Dans le quadre. Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti [27/6/1981] 3.2: EV 7/1254).
Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale dovere deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento (cf. EvV 65: EV 14/2385; EF 1328).
In passato i moralisti affermavano che non si è obbligati all'uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però questa affermazione, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”.
In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenendo conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
Questi principi generali sono suscettibili di precisazioni:
- In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.
- Quando i risultati deludono le speranze riposte in tali mezzi, è anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti.
- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, non è ancora esente da pericoli ed è troppo oneroso. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia: esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte, o il desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, o la volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. È chiaro che in tale decisione il malato potrà essere aiutato da coloro che lo rappresentano (parenti, amici, conoscenti) e che il medico curante assume una particolare responsabilità.
- Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.
La sospensione di trattamenti eccezionali (“sproporzionati”) infatti non deve significare abbandono del malato. La cura medica deve continuare gli interventi “normali” (nutrizione, idratazione…), ma anche saper applicare rimedi antisofferenza ed antiangoscia; facilitare contatti con parenti ed amici; aiutare a vincere non solo il dolore, ma anche la paura.

d. Uso degli analgesici nei malati terminali (cf. IeB III: EV 7/358-363; EvV 65: EV 14/2386; EF 1329) - Il ricorso ai farmaci antidolore ed antiangoscia fa riferimento a dosi forti e continue di analgesici, sedativi e narcotici, che possono provocare uno stato di torpore.
A questo riguardo, alcuni cristiani possono provare il desiderio di moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze ed associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso.
Non sarebbe tuttavia prudente imporre come norma generale un determinato comportamento. Al contrario, la prudenza suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso di medicinali atti a lenire o sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità.
L’uso intensivo di analgesici non è però esente da difficoltà. Se si prevede che l’uso abbrevi la vita, esso è lecito se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi o morali.
Per quanto concerne il privare l’ammalato della coscienza di sé, esso non è lecito senza grave motivo: è molto importante infatti che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con Cristo.

e. In conclusione va affermato il diritto del malato a morire con dignità. È questo un aspetto della “qualità della vita”, un diritto fondamentale. Cristianamente si deve riconoscere che “se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altra la morte è ineluttabile; è necessario, quindi, che noi, senza prevenire in alcun modo l’ora della morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità. È vero infatti che la morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma allo stesso tempo apre la via alla vita immortale. Perciò tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede” (IeB Concl.; EV 7/372).
Chi si dedica alla cura degli ammalati e dei moribondi metta a loro servizio tutta la propria competenza; ma si ricordi anche di prestar loro il conforto ancor più necessario della carità. Tale opera è prestata al Signore stesso che ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

8. L’uomo e il suo ambiente

Rimandiamo al ricco contributo di A. Bonandi, nel testo-guida del corso: L. Melina (ed.), L’agire morale del cristiano, Jaca Book, Milano 2002, 185-223. 48

 
   
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